E’ comprensibile che parlare di euro significhi mettere il dito in una piaga. Soprattutto sotto elezioni. L’Unione Europea, nata come progetto ideale, è proseguita andando avanti per tentativi ed errori. Uno di questi è stata la moneta unica. E’ stato come progettare una città creando l’arteria centrale di viabilità, ma senza occuparsi poi troppo di collocarle intorno il resto, tutto quel che può dare vita a un paesaggio abitato: scuole, negozi, piazze, aiuole. Fuor di metafora: da un giorno all’altro si è fissato un tasso di cambio per le monete nazionali (nel nostro caso forse un po’ caro, 1 euro per 1936,27 lire) e si è pensato che bastasse. Ma non è stato così. Occorreva, anzi occorre ancora completare l’unione monetaria. Per esempio con una Banca centrale più forte (che non si occupi solo dell’inflazione e dei tassi di cambio con le altre monete) o con i cosiddetti eurobond, con cui reperire risorse utili alle economie nazionali. L’assenza di questi “arredi” ha contribuito a rendere la nostra moneta impopolare, come si avverte dai tanti commenti giunti sul tema “uscire o no dall’euro”.
Ma se la moneta unica non basta, non è il caso di addossarle colpe che non ha. Le politiche di austerità di bilancio, quelle che tutti oggi tendiamo ad attribuire all’asse franco tedesco (all’era Merkel-Sarkozy più che a quella attuale), non sono figlie dell’euro. Fissare il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil e inserire il pareggio di bilancio addirittura in Costituzione come richiesto dal fiscal compact del 2012 è diventata una camicia di forza, ma non certo per il fatto che esiste una moneta unica, bensì perché discipline di bilancio troppo strette funzionano poco e male in fasi recessive. E’ quanto ripete da tempo un Nobel per l’economia come Joseph Stiglitz , che di recente ha ribadito come la soluzione non sia tanto nell’uscita dall’euro ma in un allentamento dei vincoli alla spesa pubblica. Aprirne i rubinetti avrebbe di certo un effetto balsamico per economie affaticate com’è oggi quella italiana. Escludere dal calcolo del deficit (e dunque del debito) le spese in investimenti sarebbe un’altra misura utile. In entrambi i casi l’euro non c’entra, è solo la veste con cui si denomina quel che entra ed esce.
Quel che è certo è che l’uscita dall’euro si porterebbe dietro una svalutazione. E questo a sua volta avrebbe un effetto pesante sul potere di acquisito. A pagarne il prezzo sarebbero non tanto le imprese, che compenserebbero ricorrendo alla cosiddetta “svalutazione competitiva” (a proposito, ha ragione chi ha evidenziato un lapsus calami nell’articolo originario: si pagano di più le materie prime importate e si vende meno caro quel che si esporta), quanto i lavoratori dipendenti, i cui redditi perderebbero valore nominale. Sarebbe insomma una tassa ai danni dei soliti noti, proprio quelli che nel nostro Paese le tasse le pagano per definizione, con trattenute in busta paga. Ecco perché pensiamo, in tutta onestà, che per le nostre famiglie sarebbe un azzardo uscire dall’euro. Perché sarebbe dare una risposta sbagliata a un problema giusto, penalizzando proprio chi ha stretto la cinghia fin qui.
Infine, non si può addossare all’euro la difficoltà del nostro sistema d’impresa. Quando si dice che, a parità di professioni, l’Italia ha salari nominali più bassi rispetto ad altri Paesi europei, si dice cosa vera, che attiene alla antica questione della competitività. Un salario è “competitivo” non solo se non perde valore d’acquisto, ma anche se non perde in assoluto. Ma i salari possono aumentare se si riesce a contenere il costo del lavoro per unità di prodotto, e se le imprese investono sui processi produttivi e li migliorano. E sono due cose che, negli ultimi anni, in Italia sono state trascurate. Ma ancora una volta: è colpa dell’euro?