Padre Stefano Camerlengo, Superiore Generale dei Missionari della Consolata
Non parla in ecclesialese e non ama i piagnistei. Dice che la «crisi è un’opportunità da cogliere al volo, una grazia che può darci la scossa». Padre Stefano Camerlengo, 61 anni, nativo di Macerata, è Superiore generale dei Missionari della Consolata dal 2011. È diventato sacerdote nel 1984 in Congo dove ha lavorato come missionario per molti anni. A Brescia, al Festival della missione, si discute di quale futuro per la missione ad gentes. C’è il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, mons. Francesco Beschi, vescovo di Bergamo e Presidente della commissione Cei per l’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione tra le Chiese e suor Luigina Coccia, Madre generale delle suore comboniane. Si snocciolano dati e cifre, si prende atto (e non è una novità) che l’Europa che per secoli ha evangelizzato il mondo ora ha bisogno dei missionari africani, asiatici e latinoamericani per essere evangelizzata. Il cardinale Filoni richiama l’essenziale: «Nella missione è cambiato molto, se non tutto ma non il centro dell’annuncio: Gesù Cristo».
Padre Camerlengo, tono appassionato e sguardo sornione, esordisce così: «Il punto non la sopravvivenza dei nostri istituti missionari ma continuare a dare l’acqua buona del Vangelo come diceva San Giovanni XXIII che accostò la missione della Chiesa a quella della fontana del villaggio». Benedice la crisi, padre Camerlengo: «Ben venga se ci spinge a rinnovarci e a cambiare mentalità». Paragona i missionari a San Giovanni Battista: «Quando diventerò Papa», dice con un sorriso, «scriverò un’enciclica sul Battista che è colui che indica Gesù. Questo è il nostro compito. Anche se restiamo in tre o in quattro. In Angola abbiamo aperto una missione con tre giovani missionari alla prima esperienza. Tutti dicevano che era impossibile ma stiamo andando avanti bene». La filosofia di padre Camerlengo è quella delle formiche di cui snocciola i punti essenziali: «Quando sono in fila e metti loro un sasso o un ostacolo, le formiche cambiano direzione, tutte insieme, e vanno avanti. Non tornano indietro. La missione è più grande di noi e delle nostre difficoltà. Secondo: le formiche sono previdenti durante l’estate pensano all’inverno che verrà e si preparano. Noi abbiamo avuto periodi di grande sviluppo ma non abbiamo pensato cambiamenti che sarebbero arrivati e che ci hanno spiazzato. Terzo: le formiche sono laboriose, fanno tutto quello che è possibile fare. Anche i missionari devono fare lo stesso. Con gioia. Quarto: le formiche quando si mettono insieme possono demolire una montagna. Gli istituti e le congregazioni missionarie devono mettersi insieme non per calcoli di convenienza ma per spinta evangelica». Fa l’esempio dell’Amazzonia dove i missionari della Consolata insieme ai Comboniani hanno dato vita a una missione tra gli Indios, in villaggi sperduti, di poche persone: «In America Latina e anche in Africa la collaborazione sul campo tra i vari istituti missionari c’è ed è normale. In Europa ancora ci scandalizziamo». Poi padre Camerlengo dice che bisogna cambiare anche la formazione: «Bisogna avere seminari interculturali, invece noi siamo ancora troppo eurocentrici. Poi un missionario prende e parte e va tra gli Indios dell’Amazzonia o in Giappone e deve ricominciare tutto daccapo». Padre Camerlengo non le manda a dire: «La vita religiosa non deve bloccare quella missionaria. Io non posso essere considerato un cattivo religioso perché arrivo tardi alla recita dei Vespri».
Anche sulla collaborazione dei laici è chiaro: «Non dobbiamo rapportarci a loro con senso di superiorità, della serie: “io so tutto e voi niente”. Non funziona così». Finisce con una storiella: «Ci sono due fratelli, uno più grande e l’altro più piccolo, che escono di casa per prendere l’autobus. Il maggiore corre più veloce e riesce a salire, il piccolo no e resta a terra. Il fratello maggiore a quel punto deve scendere e aspettare il piccolo o proseguire il suo cammino? Io penso che debba scendere dall’autobus. Questa è per le ma vita missionaria».