«La mia idea è stata quella di trasformare il mio lutto in qualcosa di bello per gli altri. Credo che se mi sarà possibile aiutare anche solo una persona nel corso della mia missione sulla Sea-Eye 4, sarò riuscita anche a dare un senso a quanto sto provando».
Il Natale è per eccellenza la festa della famiglia e degli affetti più cari e autentici. Carla Cioffi, 47 anni, salernitana d’origine, vive e lavora a Roma nel settore marketing e comunicazione di una grossa azienda. Svolge volontariato da anni, è anche psicologa delle emergenze e in questa veste ha partecipato a diverse missioni umanitarie sui fronti “caldi” del mondo, dal campo profughi di Lesbo, visitato di recente da papa Francesco, al confine italo-francese tra Bardonecchia e Oulx fino all’hub Covid della Protezione Civile per dare supporto profughi afgani in fuga e accolti nel nostro Paese la scorsa estate.
Dal 12 dicembre è a bordo della nave Sea-Eye 4 della Ong tedesca Sea-Eye per una missione umanitaria nel Canale di Sicilia che si concluderà a metà gennaio. «Venerdì è stata una giornata molto impegnativa, abbiamo salvato 126 persone che erano in mare su due barchini», racconta. Venerdì, in altre due operazioni, l'equipaggio ha prestato soccorso a 223 persone, tra cui ci sono 7 donne incinte e 8 bambini. Uno dei bambini ha un braccio rotto, un altro un dito rotto.
Il 29 ottobre scorso, per un incidente stradale, Carla ha perso il suo fidanzato, Pierfrancesco Rossillo, che aveva conosciuto da qualche anno ed era stato «contagiato», racconta, da quella che lei chiama la “logica del dono”. «Mi sono sentita, ed è tuttora una sensazione che ho, svuotata. Ho molte persone care vicino, ma il loro supporto, anche se fondamentale, non riesce ad alleviare il mio dolore», racconta.
Il ricordo va esattamente a un anno fa quando Carla e Piefrancesco, prima di Natale, avevano sistemato la sua casa: «Pierfrancesco aveva deciso di trasferirsi a Monza da Milano per stare più vicino alla madre che da anni cura con amore e dedizione il marito malato e per ritrovare una quotidianità con gli amici di infanzia», spiega. Un ricordo che con l’avvicinarsi del Natale quest’anno fa ancora più male: «Non potendo ritrovare la felicità di allora», dice, «e per non sprofondare ancora di più in un dolore che sarebbe acuito durante le feste che di solito si passano insieme alle persone che ami, vorrei essere io a prestare aiuto agli altri cercando di trasformare così il mio dolore in amore. Non è la prima volta che parto in missioni di Search and Rescue (ricerca e soccorso, ndr) in mare con delle Ong in supporto degli ultimi, ma quest’anno la scelta di partire in questo periodo particolare deriva sicuramente dal grande dolore che sto vivendo».
Un modo per rendere meno amaro e lancinante il dolore: «Non credo sia possibile fuggire, perché questo tipo di dolore è una parte di te e non puoi lasciarlo da nessuna parte. Anche se rimanessi ferma ad aspettare che affievolisca da solo – perché è d’istinto quello che farei, chiusa in una stanza o nel letto – non mi lascerebbe libera. Così la mia idea è stata quella di trasformare il mio lutto in qualcosa di bello per gli altri. Credo che se mi sarà possibile aiutare anche solo una persona nel corso della mia missione sulla Sea-Eye 4, sarò riuscita anche a dare un senso a quanto sto provando. Donare agli altri è innanzitutto ricevere: se il senso della mia perdita di certo non scomparirà il mio cuore verrà riscaldato dall’amore che potrò ricevere dalle persone che incontrerò nella missione di salvataggio alle quali avrò donato un po’ del mio tempo libero e della mia professionalità. Intanto spero di ritrovare la centratura che adesso mi manca».
Carla fa volontariato da molti anni ma quest'esperienza è decisamente più drammatica: «Ho sempre fatto volontariato fin da piccola e con la mia formazione di psicologa delle emergenze, conquistata da adulta, sono stata già coinvolta in altre missioni, al campo Moira di Lesbo, sul confine italo-francese tra Bardonecchia e Oulx, al Covid center della Protezione civile per dare supporto profughi afgani in fuga e altro. Fare volontariato è quello che ho sempre fatto nella mia vita, fin da ragazzina, ma quest’anno ho pensato che la partecipazione attiva ad una missione umanitaria mi consentirà di ritrovarmi, trasformare il dolore in dono ricevendo anche solo un sorriso da quanti migranti riusciremo a salvare in mare».
In che senso la logica del dono aveva "contagiato" il tuo fidanzato? «Pier», risponde, «ha dato tanto di sé nella sua vita con il suo esserci sempre per la sua famiglia, le sue figlie, gli amici e anche con un chi era più sfortunato di lui, come quei piccoli aiuti e tanti sorrisi che dava soprattutto a Dejan, un giovane ambulante del Bangladesh che incontrava spesso per le vie della città. Al momento della morte lui ha potuto compiere l’ultimo gesto di altruismo donando gli organi. Penso che è come se si fosse chiuso un ciclo di amore verso il prossimo: non è importante a chi doni ma l’importante è farlo, e questo è l’unico vero modo per essere veramente ricchi nella vita. Spero che il suo gesto sia seguito da molti: per donare gli organi è oggi sufficiente avere lo Spid e iscriversi all’AIDO (l’Associazione italiana per la donazione degli organi, ndr).Vorrei anche ricordare che il giorno dell’incidente, Pier era arrivato al Niguarda di Milano in condizioni critiche ricevendo moltissime trasfusioni di sangue, rese possibili grazie al dono di sconosciuti. Anche donare il sangue è un gesto semplice da fare».
La decisione di Piefrancesco di donare gli organi in caso di morte la lasciò sorpresa e felice: «Io l’ho saputo quando, tutto orgoglioso, una mattina era tornato a casa e mi aveva mostrato la sua nuova carta di identità elettronica: sorridendo mi aveva detto di avere chiesto lui espressamente al funzionario del comune di aggiungere la postilla di donazione, forse perché non è ancora una prassi automatica inserirla o forse si erano dimenticati di chiederglielo. I familiari invece lo hanno scoperto al Niguarda dal medico che lo aveva in carico, e dopo un momento di sorpresa sono stati tutti sollevati. Nel momento in cui il medico ci ha detto che era sopravvenuta la morte celebrale, la nostra preoccupazione è cambiata passando lentamente dal pensiero “riuscirà a vivere?” a “quali e quanti organi potranno essere espiantati per la donazione”. Credo che questo cambio di prospettiva racchiuda il senso della vita, quando essa viene vissuta con dignità. Ci siamo consolati», conclude, «pensando quanto la nostra sofferenza sarebbe stata invece gioia per altre famiglie grazie alla scelta fatta da Pier in un momento in cui la sua vita era ancora piena di progetti, entusiasmo e tante passioni. Questa sua volontà è stata anche ricordata con orgoglio e speranza durante il funerale dalla figlia minore, che è riuscita a dare, lei a 13 anni così piccola, con parole scevre da retorica e vittimismo, un conforto a tutti noi adulti omaggiando la vita che grazie a suo padre continuerà in altri».