La stoffa dell’abbraccio, percepita con la guancia. A nessuno verrebbe in mente di descrivere così la divisa dei Carabinieri, a nessuno tranne a una figlia bambina. Per questo Simona Dalla Chiesa, la più piccola dei tre figli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ha scelto di intitolare il suo lessico familiare Un papà con gli alamari, scritto a sei mani con i fratelli Rita e Nando, illuminando il lato paterno del prefetto ucciso a Palermo dalla mafia il 3 settembre del 1982.
«Papà, non padre, per il suo affetto fisico, tenero. Con gli alamari perché lo vedevo sempre in divisa, e perché è rimasto fedele a quei valori, anche dopo essere tornato a Palermo da prefetto».
Quando ha capito che suo padre non faceva un lavoro ordinario?
«Arrivando a Palermo a 13 anni. Se frequentavamo amici voleva sapere tutto: chi è, come si chiama, dove abita. A costo di passare per un rompiscatole totale, ci sorvegliava per tenerci lontani dai contesti mafiosi. Noi sbuffavamo, perché per proteggerci non ci dicevano tutto. Ma era autorevole non autoritario: non serviva. A quell’epoca i figli obbedivano».
Era complicato negli anni ’60/70 essere figli di un generale, di più: di quel generale?
«Nando che studiava a Milano e militava, nella contestazione, dalla parte dei ribelli, doveva gestire i giudizi degli altri contro papà. Discuteva anche con lui, vivacemente, ma si rispettavano a vicenda. Nando conosceva troppo bene mio padre e i carabinieri per ragionare per categorie e mio padre credeva nei giovani: riaffermava i suoi valori, ma voleva capire».
E il pericolo quando l’ha percepito?
«A Torino, gli anni del terrorismo, li ho vissuti in casa con mamma e papà e, benché già grande, coltivavo l’illusione infantile che ce l’avrebbe sempre fatta. La guerra contro il terrorismo l’abbiamo pagata carissima: mamma è morta d’infarto, giovane, per le tensioni che viveva in silenzio. Poco dopo la sua morte, un giorno che ero con mio marito da due ore a casa di amici è arrivata una telefonata: “Sappiamo che ospiti la figlia del generale Dalla Chiesa e sappiamo dove va a scuola tua figlia”. Ce ne siamo andati da Torino, eravamo diventati bersagli indiretti per colpire papà. Quando è andato prefetto a Palermo, invece, non ho avuto il tempo di avere paura: è stato tutto troppo breve, ho capito dopo».
Sua sorella Rita ammette di aver faticato a elaborare il secondo matrimonio del generale con Emanuela Setti Carraro. E lei?
«Avevo con mamma, con cui ho condiviso più degli altri essendo la piccola, un rapporto viscerale. Ma non sono mai stata gelosa di Emanuela: era discreta, rispettosissima di noi. Non solo, io soffrivo per l’abisso di solitudine in cui mio padre era sprofondato dopo la morte di mamma. Sarebbe stato egoistico ostacolare quell’affetto, chiedere che, mentre noi eravamo a casa con le nostre famiglie, lui, tornato a Palermo, vivesse la sua trincea da solo, circondato dai ricordi».
Gli eroi martiri sono un’asticella altissima anche per un figlio?
«Sì, ma l’esempio non può essere solo quello estremo di sacrificare consapevolmente la vita per dovere: l’obiettivo che mi pongo è seguire e trasmettere il rispetto delle regole. Se più persone rinunciassero alle scorciatoie per raggiungere i propri obiettivi per le vie lineari dell’onestà, forse non avremmo più bisogno dei martiri».
Prevale la rabbia o l’orgoglio?
«L’orgoglio».
Valeva la pena di vivere così?
«Dico di sì: quando lo chiedevamo a lui, ci rispondeva che le istituzioni vanno difese anche quando chi le rappresenta non merita, perché gli uomini passano e la democrazia conquistata con la Resistenza, per la quale aveva combattuto da giovane, resta».