«Ci siamo messi le mani nei capelli, almeno quelli rimasti». Questa è stata la reazione di Emanuele Giovannini e Leopoldo Siano alla proposta di Carlo Conti di scrivere un libro di ricordi di vita personale. I due autori, che da 20 anni condividono con Carlo un percorso professionale e di amicizia, sapevano che non sarebbe stata un’impresa facile estorcere le “memorie” a un personaggio da sempre schivo e restio a parlare della sua vita privata. E allora, per scoprire ciò che non emerge dai rotocalchi, l’hanno incalzato in momenti di particolare stanchezza e vulnerabilità. Come nella hall di un hotel di Salsomaggiore, di notte, dopo un’ interminabile diretta di Miss Italia. Oppure, nei pochi minuti liberi tra una prova o una registrazione negli studi Rai. Così, giorno dopo giorno, ha preso forma “Io che…”, un salto nel passato alla curiosa scoperta di un Carlo Conti ancora bambino che sognava di trasformare in lavoro la sua passione. Un sogno divenuto realtà con tenacia e costanza. Perché Carlo Conti è un lavoratore instancabile che, nel tempo, si è guadagnano l’affetto dei telespettatori offrendo in cambio professionalità, educazione, semplicità.
Nessuno si aspettava una tua autobiografia. Sorprende un Carlo Conti che si racconta...
«Infatti, non si tratta di un’ autobiografia. E’ difficile che io mi apra, mi confidi. La riservatezza è una mia prerogativa. Anche per le decisioni importanti, a volte, non mi confronto con nessuno. Il libro è, invece, un pretesto per ripercorrere alcuni episodi della mia vita che si intrecciano con la memoria collettiva. La fotografia di una generazione, quella di normali ragazzi nati negli anni Sessanta».
Emanuele e Leopoldo li hai fatti faticare parecchio…
«Abbastanza. Ma alla fine non è stato difficile. Condividiamo una serie di valori che ci uniscono da tanti anni, dal ’92 quando abbiamo fatto insieme Big, la tv dei ragazzi».
C’è un collegamento con il precedente libro “Noi che…”, nato dagli sms dei telespettatori arrivati ai “I migliori anni”?
«Assolutamente sì. Dopo il successo di “Noi che…” in tanti, casa editrice compresa, mi hanno chiesto un altro libro, qualcosa che riguardasse però solo le mie esperienze, a partire dalla mia infanzia. Anche a me è sembrata una conseguenza naturale. Dai racconti dei telespettatori ai miei racconti. Il gioco della memoria può essere molto piacevole. Ricordi che, altrimenti, andrebbero persi. Non ho più i genitori, non ho figli e così avrei rischiato di non poter trasferire a nessuno tante emozioni, sfumature di una vita che non è sempre stata facile».
I tuoi ricordi privati, a volte, si incrociano con la memoria collettiva?
«Esatto. Ogni capitolo parte da un Noi che e si trasforma in Io che… per raccontare anche la mia testimonianza.
Hai tralasciato qualche ricordo?
«Sì. Quelli che custodisco nel mio cuore, come quelli legati a mia madre».
Che cosa è stato più facile raccontare?
«Le vacanze estive a Castigliocello, per esempio. Era il periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Mia mamma lavorava come bambinaia presso i signori Marchionne che avevano due figli, più o meno miei coetanei. Ed io avevo la fortuna di poter restare con lei e giocare con i miei amici. E poi, per me, Castigliocello era un luogo magico non solo per il suo mare, per i tramonti che ancora oggi mi sorprendono, ma anche perché era diventata la meta prediletta del Cinema italiano».
E più difficile?
«Raccontare, per esempio, che Natale dopo Natale sono sempre di più i cari che non ci sono più. Il pranzo di Natale era un autentico rito della nostra famiglia. Si teneva, per tradizione, a casa dello zio Vincenzo, il fratello di mamma».
Il ricordo più divertente?
«Sono tanti. A Carnevale la maggior parte dei bambini si vestiva da zorro. Io, invece, da pascià, con tanto di pantaloncini a sbuffo di raso bianco. A quattro anni, questo travestimento, mi sarà forse anche piaciuto ma quando realizzai che quello sarebbe rimasto, negli anni, l’unico mio costume da Carnevale cominciai a detestarlo. Ci sono letteralmente cresciuto dentro a quel vestito! Molto divertente anche il capitolo dedicato alle feste in casa. Io mettevo sempre i dischi perché non volevo ballare ma almeno un ballo a festa mi toccava. In quel caso anticipavo volutamente la fine del disco con un sapiente colpetto mentre passavo vicino al giradischi».
Conduci programmi consolidati e di grande successo come “l’Eredità” e “I migliori anni”. Com’è il tuo rapporto con lo share?
«Tranquillo. Non mi esalto mai quando le cose vanno bene, così come non mi abbatto quando le mie trasmissioni non fanno buoni ascolti. Devo dire che sono stato fortunato, soprattutto ultimamente. I programmi che mi hanno affidato tengono benissimo. Cerco, comunque, di fare sempre le cose con il massimo dell’impegno e dell’onestà. Poi, è anche vero che ci sono tante variabili che possono determinare il successo di un programma, a partire dalla contro-programmazione che ti fanno».
Qual è la domanda che più ti ha infastidito?
«Non ce n’è una in particolare. Mi fa sorridere quando mi chiedono quando farò Sanremo. In certi periodi dell’anno diventa il tormentone come se ci fosse solo il Festival per un conduttore».
Lino Banfi, tuo ospite ai Migliori anni ti ha definito il Principe ereditario dei presentatori. Qual è il complimento più bello che hai ricevuto?
«Tutti i complimenti fanno piacere. È per me un grande complimento quando mi dicono che “baudeggio” o che ho l’anima “arboriana” perché faccio da spalla ai comici. Quella stessa definizione di mediano delle Tv è un onore, per me, perché è importante andare tutti i giorni in onda, fare la prima serata. Riuscire ad essere normale è un privilegio in un momento dove anche in tv tutti cercano la lite per aumentare gli ascolti».
Hai sempre lavorato in Rai. Ti definisci aziendalista?
«Decisamente sì. Quando un matrimonio funziona non c’è motivo di scioglierlo. Se ho la possibilità di esprimermi e di fare i programmi che desidero perchè andarsene?».
Ti ha sorpreso il botto di ascolti dello show di Fiorello?
«No, perché è un evento che aspettavamo da anni. Fiorello è un fuoriclasse assoluto».
Il tuo prossimo obiettivo?
«Nessuno. Non ho mai fatto questo mestiere per raggiungere un obiettivo, ma per il gusto di farlo. Anche quando ero nelle tv locali non avevo come meta Rai1. Il mio desiderio è sempre stato quello di fare trasmissioni che mi possano divertire».
Che futuro avrà la Tv generalista?
« La tv generalista sta soffrendo. È inutile nasconderlo perché l’offerta è sempre più ricca.
Sarà sempre più difficile fare grandi numeri. Lo sta dimostrando anche la stagione in corso. Si fanno i numeri con i grandi eventi. Lo dimostrano Fiorello, Sanremo , le fiction di grande spessore come Don Matteo o Il commissario Montalbano.
Quali programmi guardi?
«Guardo molto poco la tv anche se la faccio. Solo i tg e i documentari dedicati al mare».
C’è spazio per i giovani in televisione?
«Certo. L’importante è che capiscono che la vita non è una gara da fare contro gli altri ma con se stessi. Non devi considerarti un fallito se non arrivi a giocare in serie A. Puoi essere un buon giocatore anche in altre categorie. L’importante è che tu faccia bene quello che stai facendo, senza rincorrere traguardi irraggiungibili».
Spiegami un po’ il tuo motto… piedi a terra e pedalare. Come si fa a pedalare tenendo i piedi per terra?
«Dopo un risultato di successo invito i miei collaboratori a non lasciarsi andare a facili entusiasmi e a rimanere con i piedi per terra. Nello stesso tempo, li sprono a non dormire sugli allori per migliorare sempre di più».