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lunedì 10 febbraio 2025
 
I volti della commedia
 

Carlo Verdone ricorda Alberto Sordi a cent'anni dalla nascita

15/06/2020  Con il grande attore ha girato In viaggio con papà e Troppo forte: «Mi voleva davvero bene, anche se eravamo molto diversi. Lui non usciva quasi mai di casa, non amava il contatto con la gente»

Scena numero uno, in un multisala di Torino scelto per l’anteprima di Si vive una volta sola, il nuovo film di Carlo Verdone. Ci sono 750 persone ad attenderlo. L’attore e regista arriva con il resto del cast (Anna Foglietta, Rocco Papaleo e Max Tortora). Sembra molto stanco, ma non si sottrae a chi gli chiede un selfie  o un autografo. Qualcuno gli lascia un faldone: «C’è una sceneggiatura a cui ho lavorato per anni». Anna Foglietta gli dà una carezza tenerissima. Poi tutti prendono posto e il film inizia. Carlo interpreta il professor Umberto Gastaldi, che guida un’équipe medica composta dalla strumentista Lucia (Foglietta), dall’anestesista Amedeo (Papaleo) e dal suo assistente Corrado (Tortora). Sono tanto nel lavoro quanto disastrosi nella loro vita privata. Si divertono a organizzare scherzi feroci, specie ai danni di Amedeo. Ma quando Umberto scopre che proprio l’amico ha un male che gli lascia pochi mesi di vita, decide per il momento di non dirgli nulla e di organizzare con gli altri due una vacanza in Puglia. Durante i giorni passati insieme ognuno tira fuori il peggio di sé, in una resa dei conti che mette a dura prova la loro amicizia. Il pubblico in sala ride di gusto per tutta la proiezione. E in effetti il film è molto divertente, anche se ci mette un po’ a ingranare e non tutte le battute vanno a segno, risultando a volte un po’ grevi. Verdone conferma comunque di essere un regista capace di tirare fuori il meglio dai suoi attori. Scena numero due, il giorno dopo, in un albergo di Milano, dove incontriamo Carlo. Ci chiede se il film ci è piaciuto. Gli rispondiamo di sì, pur con qualche riserva. Lui lo difende e aggiunge: «Sono passati quarant’anni da Un sacco bello, il mio primo  lm. Per molto tempo vivevo con ansia l’uscita di un nuovo lavoro. Ora mi capita solo se so di non aver dato il massimo. In questo caso, non credo di potermi rimproverare niente. Poi, come sempre, sarà il pubblico a giudicare».

In una delle scene iniziali del  lm si vede papa Francesco arrivare nell’ospedale dei quattro protagonisti per farsi curare. Come ti è venuta in mente?

«Tempo fa sono stato in una clinica cattolica per fare un esame. Il primario mi ha detto: “Sai che è da poco venuto un Papa a fare la stessa cosa? Non ti rivelo chi dei due era, ma posso dirti che è stato molto simpatico e un po’ indisciplinato”».

Finalmente in questo   hai potuto dare sfogo alla tua passione per la medicina. Ti sarai divertito un mondo a citare termini come “dotto cistico” o “coledoco”.

«Sì, ho chiesto aiuto ai miei amici medici per non usarli a sproposito».

Conosci molte persone che, come i quattro protagonisti, vivono questo contrasto assoluto tra lavoro e vita privata?

«L’80 per cento è così: li vedo impeccabili mentre svolgono le loro professioni, mentre nei rapporti di tutti giorni perdono tutta la loro autorevolezza. Oggi è molto difficile portare avanti delle relazioni. Come cambiamo il cellulare perché di colpo quello che abbiamo è diventato vecchio, così “aggiorniamo” i sentimenti. È venuto a mancare il senso spirituale della vita. Amare una persona è un lavoro, mentre oggi nessuno crede di poter avere la forza per sostenere un impegno». I quattro protagonisti organizzano una burla contro un ricco borioso. Una volta smascherati, si giustificano più o meno così: «Dovete capirci, passiamo le giornate in mezzo al dolore e alla morte, non andiamo mai in vacanza».

Qualche medico ti ha mai con dato questo stato d’animo?

«Ho assistito decine di volte a interventi anche molto delicati. E ho visto chirurghi, mentre usavano il bisturi, chiedere all’anestesista: “Ma secondo te il gol della Roma c’era?”. In una sala operatoria i medici parlano di tutto, di calcio, delle vacanze, del ristorante dove andare a cenare. Io li capisco. Spesso fanno operazioni che durano anche dieci ore in cui hanno tra le mani la vita delle persone: concedersi qualche momento per sdrammatizzare un po’ la situazione è umano».

Hai accennato prima alla dimensione spirituale della vita. Pensi davvero, come dice il titolo del tuo  film, che Si vive una volta sola?

«Io sono un credente, pur tra mille dubbi e problemi. Penso che il corpo serva a far crescere l’anima, a darle sensibilità e saggezza. Poi a un certo punto il corpo ci lascia e l’anima resta. Questa cosa la avverto sempre di più. Così come sento sempre più forte la forza della preghiera. Però per me pregare non significa recitare dieci Ave Maria e dieci Padre Nostro loquio, spesso mattutino o comunque in un momento in cui niente mi può disturbare. Lì posso fare dei lunghi discorsi. Il problema è che non senti la voce di Dio che ti risponde, ma sono convinto che quello che la tua anima sta comunicando arrivi a destinazione. Ho avuto il piacere più volte di parlare con il cardinale Ersilio Tonini. In un momento in cui non me la passavo bene per vari motivi e mi sentivo profondamente avvilito e anche la mia fede era in profonda crisi, lui mi disse: “Ogni tanto, fai una telefonata a Dio. Ma devi stare da solo, tranquillo e devi essere convinto che lui ti ascolta. Vedrai, troverai la forza per andare avanti. Dammi retta, Carlo, dammi retta”. Ogni volta che ci rivedevamo, mi chiedeva: “Carlo, hai fatto quelle telefonate?”».

In questo, come in altri tuoi film come Compagni di scuola, hai raccontato l’amicizia. Quest’anno è il centenario della nascita di Alberto Sordi. Insieme avete girato due  film, In viaggio con papà e Troppo forte e tra voi c’è stato un legame umano che andava ben al di là del sodalizio artistico. Pensi spesso a lui?

«Sì, ci penso e ho capito che lui mi voleva davvero bene, anche se eravamo molto diversi. Lui non usciva quasi mai di casa. Non andava dal fioraio egiziano, dal calzolaio peruviano, dal farmacista o dal macellaio fermandosi a scambiare due chiacchiere con loro come faccio io, perché era un uomo molto riservato e non amava il contatto con la gente. A me invece piace, anche se non sempre è facile da gestire. Ma almeno mi consente di continuare a vivere immerso nella realtà per poi cercare di raccontarla nei miei film».

Ma c’è stato un episodio preciso in cui hai capito che lui ti voleva davvero bene?

«Mia madre era una professoressa e insegnava in una scuola superiore a Trastevere. Una volta decise di invitare Sordi per un incontro con i suoi ragazzi e lui, vincendo il suo riserbo, ci andò. Di lì a poco, purtroppo, mamma si ammalò di una grave malattia neurologica. Quando tempo dopo vidi Alberto, gli dissi: “Mamma, in un momento di lucidità, ha chiesto di rivederti. Io però non voglio forzarti, perché se verrai ciò che vedrai sarà molto doloroso”. Lui accettò e una sera venne a cena da noi. Si trovò di fronte una scena straziante. Ricordava mia madre ancora bella e invece era ridotta così. Vidi il terrore nei suoi occhi e gli dissi: “Alberto, la cena finisce qui. Non so se mamma ha capito che eri con noi, ma comunque ci hai fatto un grandissimo regalo”. Lui si alzò e mi diede un bacio».

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