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lunedì 10 febbraio 2025
 
 

Carmen Consoli: «Canto da mamma e da cronista»

02/02/2015  Con "L'abitudine di tornare" ha rotto un silenzio durato cinque anni per raccontare l'Italia che non le piace. «Ma il mio bambino ogni giorno mi insegna che si può essere felici».

I cinque anni di assenza dalle scene hanno fatto bene a Carmen Consoli. Si vede subito che è una donna appagata quando, sgranando i suoi occhi scuri, parla delle canzoni che compongono il suo nuovo disco, L’abitudine di tornare. Dieci canzoni scritte di getto la scorsa estate, «dove capitava, anche mentre in braccio allattavo il bambino e con la mano scrivevo i testi».
Il bambino si chiama Carlo Giuseppe, ed è nato un anno e mezzo fa. Ora è con la nonna, mentre la cantautrice catanese racconta che le nuove canzoni sono state scritte con l’occhio di una “cronista verista”. Dieci intense fotografie in musica in cui si affrontano temi come il femminicidio, il dramma dei migranti, le famiglie piegate dalla crisi. Tutte però sono illuminate dall’ironia e dalla speranza.

- In questi cinque anni lontano dai riflettori hai detto di aver avuto più tempo per stare con la gente comune. Per esempio?
«Orazio, il mio pescivendolo. Mi ripete sempre: “’U pisci aiuta a cantari”. Oppure: “La differenza tra ’u pisci di Catania e il sushi è che quello è morto mentre chistu è vivu”».

- A proposito di pesce, in La notte più lunga parli dell’umanità dei pescatori che soccorrono i tanti disperati che finiscono in mare al largo della Sicilia. Ti hanno raccontato le loro storie?
«Sì. Ogni volta rischiano il sequestro della loro barca, ma c’è una legge del mare che impone di aiutare gli altri esseri umani e che è più forte delle altre leggi. E non è una questione che riguarda solo Lampedusa. Ho amici che hanno una casa al mare e hanno rinunciato a farsi il bagno perché spesso dalle onde affiorano corpi».

- In un’altra canzone, Esercito silente, dici che in Sicilia si fronteggiano due eserciti: quello degli indignati e quello degli omertosi. Qual è oggi il più numeroso?
«Quello degli indignati, che in questi anni hanno sfilato per le strade dopo ogni strage di mafia. Ma purtroppo è ancora forte la mentalità per cui “se non sono figli miei, cu sinni futti”».

- La canzone si chiude con una frase molto dura:
«Chissà se il buon Dio perdonerà Palermo»... «In Sicilia si dice spesso: “Comu voli Diu”, che è un modo per non assumersi responsabilità. Io invece dico: rimbocchiamoci le maniche e non aspettiamo che arrivi dall’alto questo perdono».

- In Sintonia imperfetta hai invece inserito una citazione di una vecchia canzone: «Voglio vivere così, col sole in fronte…». Perché?
«La cantava sempre mio nonno. Ho letto le lettere che inviava alla nonna mentre si trovava in guerra. Vedendo la bella calligrafia con cui erano scritte pensavo a quante volte doveva averle ricopiate. Dentro c’era un romanticismo sognante che non esiste più».

- Hai un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, dove hai cantato più volte ricevendo grandi elogi persino dal New York Times. Pensi di tornarci?
«Sì, anche se non a breve, perché prima di tutto viene mio figlio e ancora non me la sento di fargli affrontare un viaggio e un soggiorno così lunghi. Ogni volta che sono andata, infatti, ho girato tutti gli Stati e, oltre ai concerti, ho incontrato nelle università gli studenti per parlare della cultura italiana. È sempre emozionante vedere nei loro occhi lo stupore quando sentono parlare dei nostri usi e costumi, dei nostri strumenti musicali, della nostra arte, della nostra storia».

- Dal 9 aprile partirai con il tuo nuovo tour. Però hai dichiarato che a te piace anche stare a casa e che sei capace di restare per ore solo a fissare il mare, senza annoiarti...
«Andrea Camilleri dice che noi siciliani possediamo l’arte di “cunnucirisi” (ndr.: indugiare). È difficilissimo non fare proprio niente, ma non è un’attività sterile. In fin dei conti Giacomo Leopardi quando guardava il Monte Tabor di Recanati si “cunnuciva”. E poi ha scritto L’infinito. Possiamo perciò dire che il “cunnucimento” è alla base della poesia. Per quanto mi riguarda, non ho mai vissuto l’amore per la musica come un lavoro. Ho sempre pensato che quando non avrò più niente da dire, semplicemente non scriverò più canzoni. In questi cinque anni mi sono goduta la mia città, che per molto tempo non ho potuto apprezzare».

- Il disco si chiude con Questa piccola magia, che hai dedicato a Carlo. Hai detto: «Mio figlio è masculo, quindi meraviglioso». Perché?
«Perché anche se in questo disco ci sono alcune canzoni in cui gli uomini appaiono sotto una luce negativa, io non ho nulla contro l’universo maschile. E poi ho avuto un padre esemplare, “femminista” nel senso che era convinto che il fatto che fossi una “fimmina” mi avrebbe dato una marcia in più rispetto ai “masculi”, anche nell’imparare a suonare la chitarra».

- Come educherai tuo figlio?
«Cercherò di fare la copiona perché ho avuto due genitori stupendi».

- Qual è la magia più grande che ritrovi in lui?
«Il suo sguardo di meraviglia. Non di sorpresa, che si consuma in un attimo, ma di meraviglia, che dura di più. E con i suoi occhi mi sta insegnando che la felicità si può raggiungere anche in questa vita».

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