I cinque anni di assenza dalle
scene hanno fatto bene a Carmen
Consoli. Si vede subito
che è una donna appagata
quando, sgranando i suoi occhi
scuri, parla delle canzoni che
compongono il suo nuovo disco,
L’abitudine di tornare. Dieci
canzoni scritte di getto la scorsa estate,
«dove capitava, anche mentre in
braccio allattavo il bambino e con la
mano scrivevo i testi».
Il bambino si chiama Carlo Giuseppe,
ed è nato un anno e mezzo fa.
Ora è con la nonna, mentre la cantautrice
catanese racconta che le nuove
canzoni sono state scritte con l’occhio
di una “cronista verista”. Dieci intense
fotografie in musica in cui si affrontano
temi come il femminicidio, il
dramma dei migranti, le famiglie piegate
dalla crisi. Tutte però sono illuminate
dall’ironia e dalla speranza.
- In questi cinque anni lontano dai
riflettori hai detto di aver avuto più
tempo per stare con la gente comune.
Per esempio?
«Orazio, il mio pescivendolo. Mi ripete
sempre: “’U pisci aiuta a cantari”.
Oppure: “La differenza tra ’u pisci di
Catania e il sushi è che quello è morto
mentre chistu è vivu”».
- A proposito di pesce, in La notte
più lunga parli dell’umanità dei pescatori
che soccorrono i tanti disperati
che finiscono in mare al largo
della Sicilia. Ti hanno raccontato le
loro storie?
«Sì. Ogni volta rischiano il sequestro
della loro barca, ma c’è una legge
del mare che impone di aiutare gli altri
esseri umani e che è più forte delle
altre leggi. E non è una questione che
riguarda solo Lampedusa. Ho amici
che hanno una casa al mare e hanno rinunciato
a farsi il bagno perché spesso
dalle onde affiorano corpi».
- In un’altra canzone, Esercito silente,
dici che in Sicilia si fronteggiano
due eserciti: quello degli indignati e
quello degli omertosi. Qual è oggi il
più numeroso?
«Quello degli indignati, che in
questi anni hanno sfilato per le strade
dopo ogni strage di mafia. Ma purtroppo
è ancora forte la mentalità per cui
“se non sono figli miei, cu sinni futti”».
- La canzone si chiude con una frase
molto dura:
«Chissà se il buon Dio
perdonerà Palermo»...
«In Sicilia si dice spesso: “Comu
voli Diu”, che è un modo per non assumersi
responsabilità. Io invece
dico: rimbocchiamoci le maniche e
non aspettiamo che arrivi dall’alto
questo perdono».
- In Sintonia imperfetta hai invece
inserito una citazione di una vecchia
canzone: «Voglio vivere così, col sole
in fronte…». Perché?
«La cantava sempre mio nonno. Ho
letto le lettere che inviava alla nonna
mentre si trovava in guerra. Vedendo
la bella calligrafia con cui erano scritte
pensavo a quante volte doveva averle
ricopiate. Dentro c’era un romanticismo
sognante che non esiste più».
- Hai un rapporto privilegiato con
gli Stati Uniti, dove hai cantato più
volte ricevendo grandi elogi persino
dal New York Times. Pensi di tornarci?
«Sì, anche se non a breve, perché
prima di tutto viene mio figlio e ancora
non me la sento di fargli affrontare
un viaggio e un soggiorno così lunghi.
Ogni volta che sono andata, infatti, ho
girato tutti gli Stati e, oltre ai concerti,
ho incontrato nelle università gli studenti per parlare della cultura italiana.
È sempre emozionante vedere nei loro
occhi lo stupore quando sentono parlare
dei nostri usi e costumi, dei nostri
strumenti musicali, della nostra arte,
della nostra storia».
- Dal 9 aprile partirai con il tuo
nuovo tour. Però hai dichiarato che
a te piace anche stare a casa e che sei
capace di restare per ore solo a fissare
il mare, senza annoiarti...
«Andrea Camilleri dice che noi siciliani
possediamo l’arte di “cunnucirisi”
(ndr.: indugiare). È difficilissimo non
fare proprio niente, ma non è un’attività
sterile. In fin dei conti Giacomo
Leopardi quando guardava il Monte
Tabor di Recanati si “cunnuciva”. E poi
ha scritto L’infinito. Possiamo perciò
dire che il “cunnucimento” è alla base
della poesia. Per quanto mi riguarda,
non ho mai vissuto l’amore per la musica
come un lavoro. Ho sempre pensato
che quando non avrò più niente da
dire, semplicemente non scriverò più
canzoni. In questi cinque anni mi sono
goduta la mia città, che per molto tempo
non ho potuto apprezzare».
- Il disco si chiude con Questa piccola
magia, che hai dedicato a Carlo. Hai
detto: «Mio figlio è masculo, quindi
meraviglioso». Perché?
«Perché anche se in questo disco
ci sono alcune canzoni in cui gli uomini
appaiono sotto una luce negativa,
io non ho nulla contro l’universo
maschile. E poi ho avuto un padre
esemplare, “femminista” nel senso che
era convinto che il fatto che fossi una
“fimmina” mi avrebbe dato una marcia
in più rispetto ai “masculi”, anche
nell’imparare a suonare la chitarra».
- Come educherai tuo figlio?
«Cercherò di fare la copiona perché
ho avuto due genitori stupendi».
- Qual è la magia più grande che ritrovi
in lui?
«Il suo sguardo di meraviglia. Non
di sorpresa, che si consuma in un attimo,
ma di meraviglia, che dura di più. E
con i suoi occhi mi sta insegnando che
la felicità si può raggiungere anche in
questa vita».