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venerdì 04 ottobre 2024
 
 

Torino, la Carmen in scena. O no?

20/11/2012  La revisione critica del regista spagnolo Calixto Bieito stravolge la vicenda, pur fra momenti di genio tetrale. Al punto da aver vinto il Premio Abbiati.

La Carmen attualmente in scena al Regio di Torino fino al 25 novembre offre la clamorosa dimostrazione di come l’intervento massiccio della regia possa recare un contributo determinante alla revisione critica di un’opera lirica. Calixto Bieito, regista spagnolo che non senza meriti oggi va per la maggiore, ha attuato un totale stravolgimento della vicenda, anche se organizzato con raziocinio, con momenti di felice genio teatrale (la sfilata della cuadrilla, fisicamente soppressa ma evocata e riverberata nei movimenti del coro alla ribalta) e alcune soluzioni sceniche di sicuro impatto visivo (il gigantesco toro di Osborne che domina il terzo atto, poi abbattuto di schianto in una luce accecante).

In scena non c’è quasi nulla (una cabina telefonica, un palo sul quale issare la bandiera, qualche vecchia Mercedes utilizzata dai contrabbandieri)
, e poco vi si svolge di quanto è ufficialmente previsto dal libretto. Prima o poi bisognerà considerare una modifica dei programmi di sala, ed eliminare l’“argomento dell’opera” che illustra nei dettagli eventi e situazioni di cui lo spettatore troverà scarsa o nessuna traccia sul palcoscenico. Per esempio, inutile cercare nel primo atto i cittadini a passeggio, visto che la scena è occupata soltanto da un drappello di soldati e da frotte di sigaraie che sembrano piuttosto assatanate frequentatrici del postribolo locale destinate a sollazzare i militari in libera uscita.

Del resto la motivazione del Premio Abbiati assegnato dalla critica musicale italiana a questa Carmen coprodotta dai teatri di Barcellona, Palermo, Venezia e Torino non lascia dubbi in proposito: «Ambientata in una malfamata terra di confine tra Spagna e Africa, la Carmen di Bieito restituisce all’opera la sua teatralità ruvida, svelata da istantanee vitali e a volte scioccanti che si susseguono in sintonia con i momenti cruciali della partitura componendo uno strepitoso racconto». Insomma, un allestimento che tradisce le indicazioni originali del libretto, ma che, secondo Sandro Cappelletto, «rivela una più profonda fedeltà alla temperatura della musica e allo snodarsi della vicenda».

A questa presunta fedeltà si rifà il maestro Yutaka Sado, che ha offerto una lettura sostanzialmente equilibrata della difficile partitura bizetiana, svariando da talune lentezze nel primo atto (l’Habanera e la Seguidilla) a un ritmo decisamente sostenuto negli altri atti, fino allo scatto drammatico del finale.

I cantanti si sono adeguati alla meglio alla visione di Sado. La protagonista, la georgiana Anita Rachvelisvili, ha una voce corposa fedelmente rispecchiata dal physique, che infatti non appare certo du rôle. Il risultato è soddisfacente solo a metà, con una punta di particolare intensità nella grande scena del terzo atto, dove la Rachvelisvili ha modo di sfoggiare la bellezza e la potenza del registro grave. Il russo Maksim Aksënov presta a Don Josè una figura aitante e credibile, ma stenta ad affermarsi nei momenti lirici dei primi due atti, risolvendo con baldanzosa sicurezza soltanto il tragico duetto finale. All’Escamillo di Mark S. Doss fa difetto la vocalità brillante del personaggio confinato nella sua ambigua tessitura di basso-baritono. Alessandra Marianelli impersona con sufficiente charme, entro i dettami della tradizione, la Micaela brava ragazza, che tuttavia si concede un irrituale ma comprensibile sberleffo provocatorio verso la rivale alla fine del terzo atto.

Successo scontato per tutti, con ormai accade da molto tempo a Torino, con qualche lievissima contestazione nei confronti della regia.

 
 
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