Il primo carnevale in mascherina sanitaria. Venezia ai tempi del coronavirus è anche questo. C’è un’aria surreale passeggiando tra calli e campielli poco affollati, in questo scampolo di carnevale, chiuso forzatamente anzitempo dall’ordinanza del governatore Zaia. La festa non è ancora finita, e la paura da contagio è già iniziata. Baute, tricorni e costumi sgargianti sfoggiati da turisti foresti si incrociano in Piazza San Marco con le mascherine indossate dai poliziotti, da qualche veneziano che ha deciso di non fidarsi del virus e da pochi visitatori con gli occhi a mandorla.
Stavolta non c’è la folla delle grandi occasioni, non c’è bisogno dei sensi unici pedonali per convogliare il fiume in piena dei turisti. La città diventa perfino più godibile. A piangere sono albergatori, affittacamere, gondolieri ed esercenti. “Ghe voleva el coronavirus per darne la bota final”, sospira un ristoratore dei Frari. “Le trolley degli ospiti dei b&b” sono scomparse. E ttto chiuso”, sospira una libraia vicina a Campo San Polo.
Appeso alla vetrina di una farmacia un cartello con su scritto “Mascherine esaurite”, a cui uno spiritoso passante ha aggiunto a penna “solo coriandoli”. Un modo come un altro per sdrammatizzare. La paura del contagio, in effetti, passeggiando per il centro resta sempre sottotraccia, ostinatamente rimossa da chi è venuto col solo intento di festeggiare nella città-salotto dei dogi. Ha pagato il biglietto e ora vuole divertirsi. Lo straniero che alle Zattere attraversa “fondamenta degli incurabili”, non conoscendo l’italiano, non coglie il tono di sentenza inappellabile compreso nel toponimo. D’altra parte, non è forse è proprio del carnevale esorcizzare tutte le paure, mettendole in maschera e facendosi beffa di esse? Già domani, sebbene a porte chiuse, si celebrerà il Mercoledì delle ceneri.
Svoltata Punta della Dogana, un gruppo di ragazzotti acconciati a mo’ di “compagnia della morte”, brandisce falci e batte ritmicamente, coi sonagli alle caviglie, una cupa marcia funebre, proprio davanti alla Basilica della Salute, simbolo della risurrezione dalla peste bubbonica del 1630, che sta qui a ricordare a tutti come i veneziani per vincere le pestilenze nei secoli scorsi si affidassero anche alla Madonna e mantenessero, poi, fede al voto, erigendo templi. Che oggi, invece, devono chiudere, su ordinanza.
Solo entrando in un market capisci che il Codiv19, che più d’un nome di un morbo sembra una password, incute timore: l’Amuchina o altri disinfettanti per le mani sono andati esauriti dal giorno prima e anche l’alcool scarseggia. Mentre le maschere di carnevale restano invendute nei negozi attorno a Rialto, le mascherine le trovi ormai soltanto al “mercato nero” di internet, dove si vendono anche a 1700 per cento in più del prezzo normale, come ha denunciato il Codacons.
La notizia che il contagio è arrivato a Venezia, infettando due nonni ottuagenari, in rianimazione al San Giovanni e Paolo, è piombata sull’ultimo sabato di carnevale, decretandone la chiusura anticipata. Ma la Terraferma non sta meglio: l‘ultimo contagiato viene proprio da Mestre, ed è ricoverato all’ospedale dell'Angelo. Tempi preoccupanti per la Serenissima. Assediata e attaccata dal mare prima, e adesso dall’aria. Dopo l’Acqua granda del novembre scorso, che ha messo in ginocchio la città e spaventato il mondo intero, ora il “male” si ripresenta sotto forma diversa, invisibile, subdola: un virus capace di trasmettersi con un semplice, inavvertito contatto di mani, un soffio di fiato di un ignaro untore. Un semplice colpo di tosse che rimbomba in un sotoportego adesso inquieta.
E subito il pensiero corre ad altre lontane “quarantene”. Proprio da qui doveva passare il coronavirus? Proprio nella città dove, sei secoli fa, sono state inventate le prime “quarantene”, anzi proprio dove la stessa parola veneta è diventata sinonimo di isolamento contro un contagio? Quaranta giorni erano, infatti, il tempo d’isolamento imposto dalla Repubblica Serenissima alle navi e agli equipaggi sospetti d’infezione che raggiungevano la città in tempi di pestilenze ed epidemie. Fu proprio Venezia, nel 1400, ad istituire, per prima, questo periodo d’osservazione, ricoverando presso l’isola del Lazzaretto tutti coloro che potevano essere portatori di virus. “Venezia era abituata alle epidemie, ed essendo un porto vi arrivava di tutto e quindi, aveva realizzato un sistema all’avanguardia per difendersi”, ricorda il professor Gherardo Ortalli, storico, veneziano, che ben conosce le memorie del capoluogo lagunare. “Per la salute pubblica aveva messo in piedi un sistema di controlli molto severo: dopo la quarantena o si era già morti o si era sani. Semplice. E chi nascondeva gli infettati in casa veniva punito con sei mesi di prigione. La Serenissima non andava per il sottile, non temeva certo di essere accusata di creare allarmismi. La sua era pura resistenza sociale”.
Oggi davanti al nuovo morbo è tutto più difficile, complicato, e la fragilità di Venezia sta anche in questa suo essere isola, ma aperta da sempre al mondo: puoi fermare il carnevale in corsa, mettere i tornelli ai varchi d’accesso del Centro storico, introdurre il ticket turistico, il numero chiuso, serrare musei e chiese, ma non puoi impedire al mondo di venire a Venezia. Perché Venezia è del mondo. Con o senza epidemie.