Si scrivono da quasi trent’anni e ha cominciato il giudice. Sembra la lettera di Simenon al contrario, ma non è finzione. La corrispondenza tra l’ergastolano Salvatore e il giudice Elvio Fassone esiste davvero. E ora sbarca a teatro, in Fine pena: ora – la libertà delle vite parallele, al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino al 22 dicembre.
La scena è monotona, a tratti claustrofobica: il giudice (Sergio Leone) e Salvatore (Paolo Pierobon), Salvatore e il giudice, alternati o insieme, sempre loro. Non potrebbe essere altrimenti: c’è di mezzo un ergastolo, ma non è il Fidelio, è una storia vera, che – a dispetto del tema pesante in tutti i sensi per definizione – riesce a replicare, anche nella versione teatrale, il miracolo di tenere assieme spessore, levità e ironia. Non era facile mantenere il passo felice dell’originale del libro Fine pena: ora, in cui Elvio Fassone raccontò, per i tipi Sellerio, l’improbabile e verissima corrispondenza tra l’ergastolano Salvatore e lo stesso Fassone, il giudice che l’ha condannato al termine di un maxi-processo tesissimo alla mafia catanese, celebrato a Torino a metà anni Ottanta . Si doveva rendere il dialogo. È toccato a Paolo Giordano, per la regia di Mauro Avogadro, trasformare in un passo a due, ma nella distanza dell’epistolario, il monologo che nel libro è tutto filtrato dal punto di vista di Elvio Fassone voce narrante.
All’inizio sembra che lo spettacolo penda tutto dalla parte della vita grama di Salvatore, che il giudice quasi le soccomba: ma è solo un’illusione ottica. Mentre lo spettacolo si dipana l’apparente bianco e nero trova tutte le sfumature dell’originale e della vita: si ride anche e neppure raramente, soprattutto per merito della magistrale interpretazione di Pierobon che rende tutta la contraddizione di Salvatore, coniugando lo spessore criminale con manifestazioni di imprevedibile ingenuità. Ci si commuove, si ride e si pensa: si ragiona della vita persa dei reclusi, ma anche del dovere della giustizia di fare la sua parte nel rispetto delle regole, si ragiona del peso della condanna da entrambe le parti, del bisogno di umanità di entrambe, si ragiona della libertà, della responsabilità e dei condizionamenti sociali, della possibilità/impossibilità di crescere e cambiare, si prova empatia per entrambe le figure e man mano che si segue il filo si scopre che la questione del rendere giustizia è molto più complicata di come siamo abituati a dipingerla e a pensarla.
Unico neo, forse, ma piccolo piccolo: la posa ieratica e impostata del giudice, che non rende tutta tutta la finezza garbata del libro. Ma è vero che i mezzi espressivi sono diversi, che ognuno ha il suo passo e che, a teatro, pesano gli archetipi e le maschere. Si arriva in fondo con una sola certezza: Fine pena: ora è uno spettacolo di domande, mai di risposte date con la scure. Si arriva in fondo portando chi guarda a mettere in discussione i pregiudizi per cominciare a ragionare. Né potrebbe fare diversamente uno spettacolo che sfiora, con sensibilità e intelligenza, il tema ultimo del senso della vita.