Don Virginio Colmegna.
Papa
Francesco ripete spesso che la Chiesa deve «dirigersi
verso le periferie».
Undici anni fa, il 24 novembre 2004, don Virginio Colmegna, uno dei
preti più noti di Milano, apriva la sua Casa della carità
dirigendosi in fondo a via Padova, estrema periferia nord, nella zona
con il più alto tasso di stranieri. La scelta era maturata insieme
al suo «maestro
dell’ospitalità»,
un altro grande gesuita, il cardinale Carlo Maria Martini. Da allora
sono state accolte 2.732 persone in difficoltà, tutte chiamate per
nome, di 95 nazionalità diverse. Nel 2015 sono 220, a cui vanno
aggiunti 130 abitanti degli appartamenti gestiti in altre zone di
Milano, 352 profughi ospitati quest’estate in una parrocchia a
Bruzzano,
819
persone seguite dallo sportello legale (tra cui 600 tra richiedenti
asilo e rifugiati),
oltre 2.000 visite mediche, 400 visite psichiatriche e altrettante
sedute di psicoterapia.
«Ora
et labora»,
diceva San Benedetto; alla Casa della carità, riflessione culturale
e pratica dell’accoglienza procedono insieme. Lo riassume bene
“Praticare l’ospitalità promuovendo diritti”, il titolo
dell’incontro che si tiene il 24 novembre alle 18.00 con il
vicesindaco Francesca Balzani, monsignor Gianni Zappa, il giornalista
Piero Colaprico e l’ex presidente del Tribunale Livia Pomodoro.
Don
Virginio, come intende festeggiare questo anniversario?
«Entriamo
nel nostro secondo decennio in profonda sintonia con la Chiesa di
Francesco, che il cardinale Martini aveva intuito indicandoci i
valori dell’ospitalità e della bellezza della gratuità. Il nuovo
decennio coincide anche con l’avvio del Giubileo della
Misericordia: non è un fatto rituale, ma il senso di riconciliazione
si vive praticando l’ospitalità. Anche ora, in un momento in cui
la speranza si abbassa, il Papa ci chiede di vivere carichi di
spiritualità gioiosa. L’ho provata nel nostro auditorium la sera di
domenica 22 novemnbre, quando i rappresentanti delle diverse religioni
cittadine si
sono riuniti per un momento di silenzio e riflessione dopo i fatti di
Parigi».
Qual
è il tratto comune di questi undici anni di storia?
«Il
valore dell’ospitalità come fatto culturale e come pratica che si
fonda sul concetto di reciprocità. Martini diceva che "scegliere
l’ospite è un avvilire l’ospitalità".
Ospitare significa condividere: essere contestualmente ospitali e
ospitati. È un’idea complessa, carica di amicizia e di inimicizia
al tempo stesso. L’ospitalità così concepita ci fa dire
che
noi non siamo semplicemente operatori o volontari alla Casa della
carità, siamo ricercatori e custodi di umanità condivisa. In questo
senso, siamo noi i primi ad essere ospitati, non solo le persone in
difficoltà che accogliamo. L’ospitalità è un rapporto biunivoco,
un sentirsi insieme.
Ma
è anche una sfida da accettare per sentirsi davvero cittadini di un
mondo globale. Martini la chiamava “sapienza della carità” e
infatti ha voluto che qui facessimo l’Accademia della carità. Le
periferie chiedono diritti, non assistenza. Tre temi sono cruciali:
la salute (quella mentale in particolare), l’assistenza legale e la
qualità dell’accoglienza».
Papa
Francesco ha criticato chi denigra la carità come fosse una
«parolaccia».
Cos’è per voi?
«È
la capacità continua di rompere l’individualismo, il fine privato,
con un orizzonte di fraternità e felicità. Tenendosi stretto il
Vangelo delle Beatitudini, da portare sempre nella bisaccia. Bisogna
lottare contro la povertà, non fare la guerra ai poveri.
Con
la Laudato
si’,
Papa Francesco chiede una spinta culturale che convinca la politica
ad occuparsi in modo continuativo, non episodico e non solo
emergenziale, di questioni come la disuguaglianza, il disagio
innescato dalle carenze abitative, la mancanza di occupazione e la
bassa qualità del lavoro, le dipendenze (tra cui quella da gioco
d’azzardo), l’alta dispersione scolastica, le difficoltà di
accesso alle cure, la sofferenza psichica. «I
poveri hanno molto da insegnarci»
afferma
Francesco nella Evangelii
Gaudium:
non vuol dire mitizzare i poveri, ma farci educare dalle loro
sofferenze e dalle loro fatiche, affinché rimettano in discussione i
nostri criteri di giustizia e fraternità».
C’è
un’immagine che riassume gli undici anni della Casa della carità?
«I
volti delle 2.732 persone accolte e un’icona donataci dal cardinal
Martini undici anni fa. Raffigura il brano biblico delle querce di
Mamre, dove si racconta di Abramo che accoglie degli sconosciuti
sotto la sua tenda in mezzo al deserto e che per questo viene
ricompensato da Dio con l’arrivo di un figlio, nonostante l’età
avanzata di sua moglie Sara. Quello di Abramo è un gesto di
ospitalità che mette in moto una dinamica di attesa e di gioia.
Sara
che scopre di essere incinta è il simbolo di ciò che è inedito,
inaspettato, dell’impossibile che si fa percorso possibile, del
superamento della razionalità, per quanto operosa e buona possa
essere. Il sorriso di questa donna entra nella storia rendendola
creativa, tenera e, soprattutto, sorprendente. L’icona delle querce
di Mamre ci ricorda che l’ospitalità praticata oggi ci può dare
un’idea del nostro domani, ci mostra tracce di futuro. Sta a noi
essere capaci di coglierle. Anche dopo Parigi: il futuro non si
costruisce alzando muri, mai. Abbiamo visto quanti danni ha fatto la
cultura della guerra preventiva».