Le parole del Papa in materia di diritto penale hanno colpito le coscienze e aperto un dibattito, soprattutto in materia di ergastolo. Abbiamo chiesto a Gian Carlo Caselli, 47 anni in magistratura, da pochissimo ex, di ragionarci insieme per capire quanto sia distante la nostra realtà dalla città ideale disegnata da Papa Francesco e per ragionare di traducibilità nella quotidianità degli operatori del diritto e delle nostre società.
«Il discorso del papa è molto ampio e molto alto. Se mettiamo insieme tutti i punti ne ricaviamo un indirizzo per gli uomini di buona volontà che operano in tutto il mondo in materia di giustizia penale. Il percorso per tradurre questo progetto in pratica quotidiana effettiva è ovviamente difficile, lungo, con tempi e modi che possono essere diversi da Paese a Paese. Del resto, lo ha ricordato lo stesso Papa Francesco, anche il Vaticano ha abolito l’ergastolo solo da poco e la pena di morte non secoli fa».
Che giustizia è quella che emerge dalle parole del Papa?
«Il principio base che collega tra loro i molti punti trattati dal pontefice è che al male bisogna cercare di rispondere con il bene cercando di ristabilire l’equilibrio sociale che un reato ha spezzato, cercando la riconciliazione anche con le persone offese, con la società tutta, mettendo al centro la persona, sia quella che ha sbagliato sia quella che è rimasta vittima. Tutto questo non significa buonismo, perdonismo, ma cercare una giustizia dal volto umano che non si risolva in una spirale vendicativa. Una giustizia che anche nell’esecuzione della pena inflitta si sforzi di tendere la mano per il recupero».
Papa Bergoglio ha parlato di ergastolo come pena di morte nascosta. Dovendo scendere al nostro quotidiano, alla sua effettiva applicazione nel sistema italiano, quel fine pena mai è davvero una pietra tombale?
«L’ergastolo è il tema che ha maggiormente attirato l’attenzione dei media, nel nostro Paese comincia con un "fine pena mai", ma può essere mitigato o addirittura cancellato dai benefici che, nei termini di legge, sono concessi anche agli ergastolani. I casi in cui il fine pena mai è effettivo, perché spazi per benefici non ce ne sono o sono ridottissimi, sono i casi limite, tra cui rientrano quelli inflitti per stragi e omicidi di mafia: delitti efferati, selvaggi, bambini sciolti nell’acido, torture atroci prima di uccidere le vittime. In queste situazioni occorre tenere conto non soltanto di un atto, che è sempre e comunque di particolare gravità, ma anche dell’organizzazione di cui il condannato faceva parte al momento del delitto e di cui continua a fare parte. C’è in questione la persistenza della pericolosità che l’appartenenza e l’affiliazione comportano, la non contenibilità di questa pericolosità senza ricorrere all’estrema ratio del carcere per tutto il tempo necessario, per quanto antipatico sia doverlo dire. I piani sono ovviamente molto diversi, ma non dimentichiamo che Papa Francesco ha parlato di scomunica per i mafiosi come ha ricordato ieri Don Ciotti a Contromafie dove mi trovo. Mafiosi che non hanno un ripensamento, neppure un principio di ravvedimento, uscendo dal carcere ricomincerebbero esattamente come prima».
Nel discorso c'è un riferimento alle carceri di massima sicurezza, all'isolamento: il 41 bis è ancora attuale?
«Io credo che quando il papa ha parlato di isolamento, di torture si riferisse soprattutto a casi come Guantanamo, il 41 bis è un articolo dell’ordinamento varato subito dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, era sostanzialmente il progetto pensato da Falcone e da Borsellino, intriso del loro sangue e del loro sacrificio. Quel regime ha subìto da allora modifiche imponenti, secondo molti studiosi è stato “annacquato”. E' cambiato in senso favorevole ai detenuti, ma a mio modestissimo, personale parere resta necessario. Prima del 41 bis i mafiosi vivevano in carcere come al Grand Hotel. Non era un modo di dire ma la fotografia di una realtà: ostriche e champagne. Ovviamente non si tratta di una questione gastronomica ma della possibilità di fare anche in carcere il bello e il cattivo tempo, di comandare delitti alla cosca di cui si continua a essere i capi. In questo modo lo Stato esponeva tutta la propria debolezza di fronte al potere mafioso, ma così la guerra alla mafia ma non si può vincere. Il 41 bis è servito a ristabilire l’autorità dello Stato di fronte al potere mafioso».
Francesco ha parlato anche di condizione carceraria: impossibile per l’Italia non sentirsi in causa…
«È uno dei problemi importantissimi sollevati da Papa Francesco e sottolineato poco dai media: il sovraffollamento, le condizioni di vita in carcere, perché come ha spiegato ieri Saviano a Contromafie, l’illegalità si combatte con i diritti. Un carcere che non rispetta gli spazi vitali, degradante per la dignità della persona, è una palestra di delinquenza con conseguenze nefaste anche per la società che vede messa a rischio la sua sicurezza: un detenuto rieducato è un rischio in meno per la società».
Un uomo di diritto, diritto penale, e, possiamo dirlo credo, notoriamente cristiano, come lei è, come si pone all’ascolto di questo discorso?
«Parafraserei Papa Francesco: chi sono io per interloquire con il Papa? Prendo atto di questo discorso ampio e alto e ci medito sopra. Vorrei dire che mi sembra molto importante la sottolineatura molto forte contro la corruzione, contro la rete di complicità. Il Papa dice che la giustizia riesce a catturare solo i piccoli, parla di tortura, di esecuzioni extragiudiziali temi importantissimi nel panorama mondiale di questo momento. Non voglio insegnare ai giornalisti a fare i titoli, per carità, ma mi sembra riduttivo, per lo spessore e la densità del discorso, concentrare l’attenzione soltanto sull’ergastolo».