Matteo Messina Denaro è una figura che appartiene all’immaginario della Cosa nostra delle stragi, strettamente connessa non solo simbolicamente a Totò Riina e Bernardo Provenzano, ma è anche il punto di contatto tra il passato e il presente qualunque cosa voglia dire. Il giorno in cui 30 anni fa, il 15 gennaio del 1993, giunse la notizia della cattura di Totò Riina Giancarlo Caselli, dopo una lunga stagione a combattere il terrorismo a Torino al fianco del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, si stava insediando a capo della Procura di Palermo.
Era là quando si emise la prima misura cautelare nei confronti di Matteo Messina Denaro, era là quando furono commesse le stragi dei Georgofili a Firenze, di via del Velabro a Roma e di via Palestro a Milano, per le quali, tra le altre cose, Messina Denaro è stato condannato.
Dottor Caselli, che cosa rappresentano oggi questa figura e il suo arresto, alla luce di quello che negli ultimi 30 anni abbiamo imparato?
«Due considerazioni preliminari ma indispensabili. Primo: grazie, grazie, grazie ai carabinieri e ai magistrati palermitani che hanno fatto questo regalo al nostro Paese e alla nostra democrazia. Un fatto storico di importanza grandissima. Secondo: sono un pensionato, sono fuori da una decina d’anni, dovete accontentarvi di considerazioni di massima. Detto questo, l’arresto di un latitante del calibro di Matteo Messina Denaro – i suoi complici almeno a quanto ne sappiamo lo chiamavano Madre Natura e basta questa formula per dire il prestigio che gli attribuivano – è una cosa storica. Però attenzione: Cosa Nostra e tutte le mafie sono, sì, questo o quell’altro singolo esponente, anche di grandissimo rilievo criminale come Matteo Messina Denaro perché presumibilmente capo dei capi, ma sono anche e prima di tutto un’organizzazione strutturata».
La lezione di Giovanni Falcone.
La realtà che Falcone conosceva bene e sulla quale dopo di lui ci siamo mossi noi sul suo esempio, è complessa: bisogna non accontentarsi di questo risultato pur formidabile, ma continuare con assiduità non con quella politica dello “stop & go” che ha caratterizzato troppe volte la nostra antimafia. Continuare puntando all’organizzazione: la mafia non è un’emergenza, è una struttura organizzata che ci affligge da decenni e decenni. Su quella bisogna intervenire e ancora di più bisogna intervenire sulla sua spina dorsale, ossia le relazioni esterne: le relazioni esterne, le collusioni, le complicità con pezzi – non generalizziamo – del mondo legale, della politica, dell’economia, della finanza, dell’imprenditoria, delle istituzioni, della cultura, dell’informazione, della società civile. Questa è la spina dorsale del potere mafioso ed è la più difficile da combattere, non per niente si usa chiamarla zona grigia, alludendo al fatto che il grigio sfugge, che è indefinito: per metterlo a fuoco co vuole più di quello che serve per catturare un latitante. Ma è vero che lo si cattura se questa zona grigia è individuata e decifrata».
Si dovrebbe fare ancora di più?
«Non voglio polemizzare con nessuno, questo è un momento di felicità, di soddisfazione, di contentezza. Ma da molti anni a questa parte la politica, tutta la politica trasversalmente, non ha più la mafia in agenda o almeno non la ha nei posti di rilievo dell’agenda. Questo è un errore, è un problema per l’antimafia in generale: una politica assente o quantomeno indifferente, distratta che sottovaluta questo problema rende le cose più complicate».
Non per caso dobbiamo temere la mafia di più quando non si vede troppo?
«La mafia purtroppo fa notizia quando uccide o quando c’è un fatto clamoroso come l’arresto di Matteo Messina Denaro, dovrebbe fare sempre notizia: l’attenzione e la sensibilità verso quello che serve per combatterla efficacemente devono restare alte perché purtroppo la mafia non è ancora un discorso chiuso».