La domanda, ne siamo consapevoli, vale un milione di dollari: è ammesso uno sguardo ironico su un tema drammaticamente serio come la mafia? La giriamo a Gian Carlo Caselli, procuratore della Repubblica a Torino, che nel 1993 chiese di andare a dirigere la Procura di Palermo, restandovi setta anni, non precisamente tranquilli.
Dottor Caselli, chi ha visto la faccia feroce della mafia può accettare che la si racconti con ironia?
«Occorre una premessa: l’antimafia si può fare in molti modi. Con la repressione: perseguendo reati e colpevoli come devono fare le forze dell’ordine e la magistratura. Con l’affermazione dei diritti: cercando di assicurare ai cittadini, soprattutto nelle aree a elevato controllo mafioso, i loro diritti fondamentali, perché siano cittadini alleati dello Stato e non sudditi, magari obtorto collo, ma di fatto alleati della mafia. Con la formazione: in famiglia, nelle scuole, nella Chiesa. Con la cultura: attraverso l’informazione che deve approfondire, spiegare, spazzare via luoghi comuni – la mafia che dà lavoro per esempio –, ma anche attraverso l’arte di cui il cinema è una forma».
L’arte ovviamente può permettersi registri agli altri preclusi, fin dove è ammessa l’ironia?
«Tutto dipende dalla qualità dell’ironia e dalla qualità del film: regia, sceneggiatura, interpreti. Quando il lavoro è di alto livello si può fare antimafia anche con l’ironia, che diventa anzi un’arma molto efficace e pungente».
È il caso del film La mafia uccide solo d’estate?
«Sì, è il caso di Pierfrancesco Diliberto in arte Pif. Il suo film racconta una storia d’amore, che siccome si svolge a Palermo si intreccia con fatti di mafia che finiscono per diventarne i protagonisti. Il film smonta con leggerezza intelligente la cultura dominante secondo cui la mafia è un problema d’altri, che non deve interessare il cittadino comune e invece – come Pif dimostra – incombe sulla sua vita, gliela cambia».
Che effetto fa, ai coinvolti veri, vedere gli eroi riumanizzati, restituiti alla quotidianità delle piccole cose?
«Positivo perché fatto con grande rispetto. Per esempio la dichiarazione d’amore, il primo bacio tra i due fidanzati, preludio a una nuova famiglia, arriva durante i funerali degli uomini della scorta di Borsellino. Detto così potrebbe apparire irriguardoso e invece è una scena così traparente, così pulita, così rispettosa che non stona anzi afferma i valori della vita rispetto alla tragedia della morte, della violenza, della barbarie mafiosa. A me è piaciuto molto questo momento».
Sguardo leggero, ma rispetto della storia?
«Sì, si pensi all’infatuazione per Andreotti, resa con grande efficacia cinematografica nel travestimento della festa di carnevale, di cui è vittima il bambino Arturo: il progressivo distacco dall’infatuazione dà al film un modo lieve di mostrare, senza proclami, quello che Andreotti storicamente è stato».
I boss mafiosi finiscono vittime di un’ironia feroce. Che effetto fa: dissacrazione o altro?
«Direi proprio dissacrazione e mi sembra molto riuscita. Non ci sono forzature, è un racconto che in quanto racconto che scorre fluido riesce a comunicare. Lo spettatore assiste a un bel film che dice tante importanti cose. A chi le conosce già risultano dette molto bene. A chi per età non le conosce possono rimanere impresse proprio perché sono dette così bene».