Gelle è ormai un simbolo. Un nome in codice, la sintesi di vent’anni di giustizia – e ancor prima di verità – mancata. Per l’anagrafe somala si chiama Ahmed Ali Rage, etnia Abgal, sottoclan Harti. È nato e cresciuto nella Mogadiscio di Siad Barre nel 1965 e, fino al giugno del 1997, era semplicemente uno dei tanti somali che soffriva la guerra civile più crudele dell’Africa orientale. Due anni dopo la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin si trova coinvolto in uno dei misteri italiani, diventando il supertestimone che il governo Prodi porterà in Italia.
Grazie alla sua deposizione – rilasciata solo alla Digos e al Pm romano Franco Ionta e mai confermata in Tribunale – un altro somalo finirà in carcere, Hashi Omar Hassan, con una condanna a 24 anni di reclusione, accusato di aver fatto parte del commando che entrò in azione il 20 marzo del 1994.
Gelle doveva chiudere il caso, offrendo la testimonianza chiave all’opinione pubblica e alla famiglia; alla fine è diventato lo strumento per chiudere un’indagine scomoda per tanti, allontanando la magistratura dalla verità. È questo il senso delle sue parole raccolte dall’inviata di Chi l’ha visto, Chiara Cazzaniga, nell’intervista che andrà in onda questa sera: «Ho mentito, ho raccontato il falso, perché mi hanno pagato per farlo».
Parole secche, chiare, senza spazio per i dubbi. Una versione che Gelle aveva già dato nel 2002 a un giornalista somalo, Sabrie, in una conversazione telefonica registrata. In quel caso per il tribunale di Roma non c’era la certezza che la voce sentita da Sabrie fosse davvero quella di Gelle, non potendo effettuare confronti e verifiche: la sua posizione nel processo per calunnia alla fine venne archiviata con un’assoluzione. Oggi c’è un lungo video, dove l’immagine di Gelle appare identica a quella riportata sui cartellini segnaletici realizzati dalla Digos di Roma nel 1997, lasciando pochi spazi ai dubbi.
L'ambasciatore e il testimone
Ahmed Ali Rage arrivò in Italia nel 1997, dopo essere stato individuato come testimone chiave e attendibile dall’ambasciatore italiano Giuseppe Cassini. Le genesi di quella operazione l’ha raccontata lo stesso diplomatico il sei agosto del 1997 al procuratore di Roma Vecchione: «A novembre del 1996 mi venne chiesto dal Segretario Generale del Ministero degli Esteri, su preghiera del Vice Presidente del Consiglio, di raccogliere dati utili all'inchiesta in corso nella misura consentita e in modo informale; preciso meglio che non poteva trattarsi di un incarico formale ma che tuttavia esso derivava dal fatto che i genitori della Alpi si erano più volte rivolti all'on. Veltroni perché si potesse far luce sull'episodio della morte della figlia».
Dunque l’incarico di fatto investigativo venne affidato a Cassini direttamente dalle alte cariche del governo Prodi (il ministro degli esteri era all’epoca Dini), su iniziativa dell’allora vice presidente del Consiglio Walter Veltroni.
La versione che Cassini raccoglie è quella di un omicidio di fatto casuale, non legato alle inchieste giornalistiche di Ilaria Alpi: «Dagli incontri che ho avuto a Bosaso (Nord-est della Somalia)», prosegue il verbale della sua deposizione, «e dalle dichiarazioni di testimoni che avevano vissuto gli ultimi giorni dei due giornalisti a Bosaso non ho registrato alcun indizio che possa suffragare la nota tesi del traffico d’armi legato alla cooperazione italiana».
Quali erano questi testimoni incontrati nel suo viaggio a Bosaso, la città dove Ilaria Alpi era andata cercando informazioni sulla Shifco, la compagnia italo-somala coinvolta – come dirà anche l’Onu qualche anno dopo – nel traffico d’armi? L’ambasciatore, nella sua deposizione, non lo dice. Il suo racconto prosegue, arrivando all’incontro con Gelle: «Il 25 luglio scorso, trovandomi a Mogadiscio, ho ricevuto in visita due somali – Abdessalam Ahmed Hassan e Ahmed Ali Ragi “Gelle" – di cui il primo è amico del responsabile dell'ufficio dell’Unione Europea di Mogadiscio».
Durante la prima conversazione con i due somali Cassini raccoglie la testimonianza di Ahmed Ali Rage, parole che nei mesi successivi porteranno all’arresto di Omar Hashi Hassan. Il diplomatico aggiunge solo un accenno alla richiesta di Gelle: «Questo testimone mi pare disponibile a fare i nomi dei sette (a me per altro non volle riferirli) purché gli venga garantita la sicurezza personale: e ciò non può verificarsi se non concedendogli il permesso di venire in Italia per un periodo prolungato, dato che la Somalia non gode in questo momento di una organizzazione giudiziaria e di polizia tale da garantire la sua incolumità».
L'arrivo in Italia
Eccolo, dunque, il testimone chiave che tutti aspettavano. E, poco dopo, arriva anche il nome da offrire alla giustizia. Il problema era: come lo portiamo in Italia senza insospettirlo? Per un caso – oppure no – Hashi Omar Hassan era nella lista dei testimoni da mandare a Roma per ricostruire il delicato caso delle violenze dei militari italiani contro i civili somali.
Una brutta storia, mai chiarita fino in fondo, di stupri e torture, che la commissione Gallo stava affrontando. Bastava farlo volare fino a Roma, dicendogli che andava a testimoniare e a chiedere giustizia, per poi fermarlo appena metteva il piede in Italia. E così è avvenuto.
Il 12 gennaio 1998 Omar Hashi Hassan viene fermato dalla Digos di Roma, guidata da Lamberto Giannini, oggi a capo dell’Ucigos. A suo carico c’erano quella testimonianza chiave, raccolta prima dall’ambasciatore Cassini e poi dalla stessa Digos e del Pm Franco Ionta, tre mesi prima. Mancavano due passaggi fondamentali: il riconoscimento da parte di Gelle del somalo accusato di omicidio e la conferma delle parole del teste chiave in Tribunale.
Nulla di questo avverrà: Gelle poco prima del natale 1997 prende il volo, sparendo per 17 anni. Fino alla settimana scorsa, quando la reporter di Chi l’ha visto lo ha rintracciato e intervistato
Ufficialmente da quel 1998 la procura di Roma ha sempre cercato di rintracciare quel testimone chiave. La delega, almeno fino al 2014, era affidata alla Digos di Roma, che ha sempre sostenuto di non essere in grado di rintracciare il somalo.
Nel 2006, però, l’agente di collegamento dell’Interpol di Londra mandò un appunto dettagliato alla Commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Carlo Taormina, che aveva ascoltato il giornalista somalo Sabrie, acquisendo copia della telefonata in cui Gelle sosteneva di aver mentito.
In quella nota c’erano indirizzo, abitudini e relazioni familiari del testimone sparito, che risultava residente a Birmingham.
Nel marzo del 2014 la moglie di Gelle è stata intervistata nella città inglese e solo per un caso l’uomo non era in quel momento in casa. Non fu possibile, allora, parlare con lui, anche perché la comunità somala di Birmingham si chiuse dietro un muro di omertà.