Per quanto inquietante, per quanto tremendo sia, tra quanto sta emergendo dalla vicenda dell'ospedale di Saronno, forse siamo attrezzati, se non a capire, a prendere atto del fatto che esistano persone che in coppia, e in preda a deliri folli o criminali, possano commettere reati terribili, come quelli di cui sono accusati l’infermiera Laura Taroni e l’anestesista Leonardo Cazzaniga. Se non altro perché, nelle indagini giudiziarie, ne abbiamo visti altri. Se non altro perché, pur attoniti, siamo pronti a tenere conto delle categorie della follia e del crimine come sfaccettatura drammatica dell’umano.
Quello che, non possiamo né capire, né accettare, quello di cui non possiamo neppure passivamente prendere atto, è l’idea che molte persone – almeno 7 l’hanno ammesso davanti agli inquirenti – sapessero o quantomeno nutrissero sospetti che qualcosa di grave - crimini da ergastolo – potesse accadere nelle stanze in cui lavoravano e che non si sia mossa foglia, che le denunce di un paio di infermieri all'ospedale non abbiano sortito altro che un’inchiesta interna foriera di alcune conclusioni – dosi di farmaci non in linea con le indicazioni del sistema sanitario – ma non di provvedimenti, a parte uno spostamento dei due, quando ormai era giunta notizia che la Procura stava indagando su denuncia di un'infermiera.
Che cosa ha trattenuto chi sospettava dall’intervenire? La paura di perdere il lavoro? La cultura dei fatti propri? Il timore di ritorsioni? La preoccupazione per il buon nome dell’ospedale? Che altro di abbastanza forte da accettare il rischio di farsi potenzialmente testimoni, se non addirittura complici di persone sospettate di commettere, a suon di dosi letali di farmaci (quello che secondo gli inquirenti l’anestesista arrestato chiamava vantandosi “il mio protocollo” o il “protocollo Cazzaniga”) nientemeno che omicidi ai danni di pazienti innocenti e ignari?
Stiamo parlando di medici, infermieri, dirigenti di un ospedale pubblico: persone incaricate di pubblico servizio e come tali obbligate alla denuncia in presenza di notizie di reato perseguibili d’ufficio. Peggio: persone che hanno scelto la cura come mestiere, che sono state formate (ma come?) per questo.
Come sempre in questi casi dire “tutti sapevano” è come dire che nessuno sa: tutti è troppo, perché è un’affermazione generica, ma dalle indagini emerge, tra ammissioni, intercettazioni, carte di una inchiesta interna all’ospedale, che alcuni sospettavano e altri sapevano, non pochissimi tutto sommato. Questa ammissione, al di là delle responsabilità dei singoli che la giustizia valuterà, alimenta domande ineludibili.
Se non bastano il sospetto di omicidi e l'istinto di impedirne a smuovere la palude di silenzio, a far scattare un sussulto di umanità e di assunzione di responsabilità, che cosa serve? L’autorità giudiziaria darà le risposte che le competono: ci dirà se, chi, come, quando, chiarirà le responsabilità penali, ma nel frattempo qualcun altro, lungo la catena che va dalle responsabilità civili, a quelle morali e politiche di un luogo di cura pubblico, ci dovrà spiegare il perché. Ci dovrà dire come sia possibile che in un ospedale normale, di un Paese normale, possa sorgere anche solo il sospetto (diffuso a quanto pare) di una cosa così grave senza che contro un fantomatico “protocollo Cazzaniga”, inventato dal primo che passa, si attivi automaticamente, istintivamente il protocollo senza virgolette che serve a neutralizzarlo.
Ne va di noi come persone, prima che come cittadini, possibili pazienti: persone che non possono vivere con il sospetto di abitare un Paese in cui un luogo cui per definizione ci si deve affidare possa improvvisamente uscire dalla realtà per materializzarsi dentro un thriller di degno di Dürrenmatt, senza che nulla riesca a impedirlo.