(Foto Ansa)
Un incubo senza fine. Costretto da quasi un anno e mezzo a dormire sul nudo terreno, in una cella della prigione di Tora, al Cairo, sinistramente famosa per le torture e le disumane condizioni di vita a cui sono sottoposti i detenuti politici; senza la benché minima possibilità di difendersi, malnutrito e in stato di depressione, senza farmaci adeguati, né vaccinazione anti-covid.
E ora l’ennesima mazzata per Patrick Zaki: trascorrerà un altro compleanno, quello dei suoi 30 anni, ancora in carcere, perché allo studente egiziano dell'Università Alma Mater di Bologna, accusato ingiustamente di propaganda sovversiva, arrestato e torturato al Cairo, di ritorno dal capoluogo emiliano, dove frequenta un master, sono stati inflitti altri 45 giorni di custodia cautelare in carcere, iniziata il 7 febbraio 2020.
La decisione è stata presa dopo un'udienza svoltasi martedì e resa nota nelle ultime ore da una sua legale: altri "45 giorni, come ogni volta", ha detto l’avvocatessa Hoda Nasrallah. Motivo della detenzione: l’accusa nei confronti dell’attivista per i diritti umani, ancora tutta da provare, di propaganda sovversiva per dieci post su Facebook che il giovane ha sempre dichiarato essere delle fake, ma che potrebbero causare una condanna fino a 25 anni di carcere, per "diffusione di notizie false", istigazione "ai crimini terroristici" e tentativo di "rovesciamento del regime al potere", le accuse, cioè, che solitamente il regime egiziano rivolge ai dissidenti o a chi è critico nei confronti del governo e per le quali sono in carcere con Patrick altre migliaia di dissidenti. Insomma, un caso eclatante, come denuncia Amnesty international da mesi, di "accanimento giudiziario".
Da tempo in Italia è partita “dal basso” una mobilitazione attorno alla vicenda che ha portato a oltre 265 mila il numero di firme raccolte sulla piattaforma change.org per conferire a Zaki la cittadinanza italiana. Anche i sindaci italiani si sono uniti a questa campagna e a quelle promosse dal Comune e dall’Università di Bologna, a quella di Amnesty International e di tante altre associazioni che si sono attivate per lo studente egiziano, per chiederne la scarcerazione immediata e incondizionata. Il Senato ha già dato via libera a un odg che impegna il governo ad attivarsi per la sua liberazione.
Scrivemmo 45 giorni fa, che “un rapido ok alla concessione della cittadinanza a Zaki sarebbe un segnale finalmente inequivocabile della volontà, espressa finora con generiche affermazioni di principio, di tutela e di appoggio dell’Italia allo studente dell’ateneo bolognese e alla sua famiglia”, ma fornirebbe anche al nostro Paese uno strumento di pressione nei confronti dell’Egitto ben più efficace: se dietro le sbarre ci fosse un cittadino italiano, in effetti, molto cambierebbe.
C’è chi pensa, comunque, come il ministro degli Esteri Di Maio, che, seppur meritorie, tutte queste iniziative, in mancanza della cittadinanza, possano solo far irrigidire il governo egiziano, e che i canali diplomatici abbiano bisogno di “lavorare nel silenzio”. Il che ha senso. Ma è anche vero, come sottolinea ancora Amnesty International, che “se non fosse stato per la mobilitazione della società civile e per il sostegno dei mezzi d’informazione in questi mesi la drammatica situazione di Zaki avrebbe rischiato di finire dimenticata”.
Ricordiamoci che, come Patrick, stanno subendo le stesse intollerabili ingiustizie decine di migliaia di altri studenti e intellettuali incarcerati, “rei” soltanto di aver manifestato pacificamente contro gli attacchi alla libertà e ai diritti umani. Gli studenti, come i giornalisti, gli intellettuali, fanno da sempre paura a governi repressivi come quello egiziano, o quello turco, perché sanno che la voce, la penna, il libero pensiero sono armi “disarmate” più pericolose di qualsiasi esercito. Se questo è vero, sarà proprio il silenzio a fare il gioco di questi governi. Non siamo di fronte, cioè, a un sequestro di persona compiuto da un gruppo terroristico, che conosce solo la trattativa economica a riflettori spenti, con agenti segreti e discretissimo lavorio diplomatico, ma di un “obiettore di coscienza”, detenuto da mesi dalle autorità di un grande Paese, tra i leader del continente africano, che intrattiene importanti rapporti d’amicizia ed economici con l’Italia, tra l'altro, già coinvolto pesantissimamente nell’omicidio di Giulio Regeni.