Le sezioni unite della Cassazione (civile) hanno chiarito i dubbi relativi al tema del “parto anonimo” e della possibilità o meno da parte del giudice, in via riservatissima, di interpellare, qualora il figlio maggiorenne lo richieda, la madre che aveva partorito in anonimato, per verificare che confermi la propria decisione di rimanere sconosciuta. I giudici delle Sezioni unite hanno deciso a favore di questa possibilità, dando un indirizzo a su casi che fin qui, in Tribunali diversi, avevano prodotto decisioni in contrasto.
La legge sulla segretezza della maternità (184/1983, modificata nel 2000), che consente alla madre di partorire in ospedale restando anonima senza riconoscere il bambino a tutela di entrambi, era stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta (278/2013) vent’anni dopo nella parte in cui non prevedeva alcuna possibilità di revoca di quella decisione di segretezza, negando sia al figlio nato in condizioni di anonimato ogni possibilità di ricerca delle proprie origini, sia alla madre la possibilità di cambiare quella decisione nel corso della vita.
A partire dalla dichiarazione di incostituzionalità del 2013, i Tribunali avevano fin qui agito in due modi. Una parte negava comunque ogni possibilità di interpello della madre in attesa di una legge del Parlamento. Un’altra parte, individuata una procedura segreta, faceva sì che fosse il giudice in persona a chiedere direttamente alla madre, con modalità tali che nessun altro venisse a conoscenza del colloquio, se intendesse, anche prendendosi del tempo per decidere, rimanere ferma in quella decisione di anonimato o se, invece, fosse disposta a prendere in considerazione la richiesta del figlio.
Il tema è delicato e vede confliggere due diritti: il diritto del figlio conoscere le proprie origini e quello della madre a restare anonima. Sulla vicenda, prima della parziale dichiarazione di incostituzionalità da parte della Consulta, si era pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che, il 25 settembre 2012, aveva condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 8, dal momento che la nostra legislazione non prevedeva un bilanciamento tra il diritto del figlio e quello della madre.
La decisione deposisitata il 25 gennaio del 2017 dalle Sezioni unite della Cassazione, tenendo conto sia della Sentenza della Consulta, sia di quella della Cedu, chiarisce che il giudice, investito della richiesta del figlio, ha il potere di contattare, salvaguardando la massima riservatezza, la madre per chiedere se desideri mantenere o se intenda revocare il segreto. Resta fermo il fatto che nel caso in cui la risposta della madre sia negativa il diritto del figlio trova un limite invalicabile: tra i due diritti confliggenti, senza il consenso della madre, prevale il diritto della madre all’anonimato. E il suo nome non arriverà mai al figlio.