Caterina Furfaro nella stazione deserta di Cittanova, in Calabria. Foto di Antonia Messineo.
D’estate si difende dalle vipere e dall’erba alta. D’inverno,
nelle lunghe pause tra le corse della mattina presto e quelle attorno all’ora
di pranzo, deve stare in guardia contro i malintenzionati, in questo posto
flagellato dai vandali e dal maltempo. Caterina Furfaro sembra un’eroina
d’altri tempi, sola in mezzo al deserto di una stazione dove i treni non
passano più. A farle compagnia stanno arrivando i giornalisti da quando
Avvenire, per primo, ha acceso i riflettori sulla sua storia.
Una circolare del 6 giugno 2011 sospende, per ragioni di
sicurezza, le corse su rotaia che transitavano da Cittanova, lo splendido
paesino che dai piedi dell’Aspromonte si estende fino ad abbracciare con lo
sguardo il Golfo di Gioia Tauro. I lavori sulla tratta, per ripristinare la
circolazione, dopo cinque anni, non sono ancora partiti.
E così Caterina, “operatore di stazione in funzione di
capostazione” si ritrova ogni giorno,
esclusi i festivi, in un edificio abbandonato, pieno di graffiti e vetri
incrinati, a staccare i biglietti delle corse sostitutive su pullman che
garantiscono ai numerosi viaggiatori un servizio minimo tra le 6,46 e le 15.30
del pomeriggio.
La stazione ferroviaria di Cittanova, in Calabria, oggi in disuso. Foto di Antonia Messineo.
Non lo voleva quel posto, lei studentessa di giurisprudenza a Messina, 4 esami alla laurea, in cerca di casa per sposarsi con il ragazzo con cui era fidanzata da sette anni. Prova a fare resistenza al richiamo della mamma, alle insistenze del papà. Lui può andare in pensione, dando le dimissioni, e lasciare il posto fisso a sua figlia. «Un posto a tempo indeterminato, per me figlia unica, tornando dai miei genitori», ricorda. Ma Caterina dice no, che non le interessa, che non le piace. Poi il compromesso con i genitori, la scelta di provare «soltanto per un anno prima di tornare alla mia vita di prima».
E invece, quando prende servizio nel 2007, Caterina si innamora di quel lavoro, delle manovre ai binari, dei treni che passano, della vita che tra studenti e pendolari, anima la stazione. Decide di restare anche se il fidanzato non la segue, anche s egli studi restano da completare. Si reinventa una vita, con nuove amicizie e nuovi svaghi. Con un nuovo amore, un matrimonio e un figlio che oggi ha tre anni. Il lavoro vicino casa le rende possibile anche accompagnare gli ultimi anni di malattia di suo padre, ed è l’unico momento in cui le si velano gli occhi, che si chiamava Vincenzo come suo figlio.
Caterina Furfaro, a Cittanova, in Calabria. Foto di Antonia Messineo.
Per il resto sorride, caparbia, con gli occhi intelligenti che cercano soluzioni ad anni di dissesto. «Si potrebbe fare una metropolitana di superficie per collegare tutti i paesi della Piana», spiega pensando al futuro, appoggiata a un piccolo tavolino, il vecchio telefono a manovella appena dietro le spalle, le foto antiche del convoglio a bianco e rosso a gasolio. Rischia il trasferimento, Caterina Furfaro, con quella frase, «fino alla riapertura della linea» che da queste parti può significare «per sempre». Ma a renderla combattiva non è soltanto il rischio di doversi trasferire a 150 chilometri da casa, distanza che, con gli attuali trasporti e con le strade della Calabria, significano una lontananza siderale. Caterina parla per amore della sua terra, perché vede le potenzialità di una Regione che potrebbe avere uno sviluppo che non ha. Parla perché ascolta le fatiche degli studenti costretti a girovagare tra San Giorgio, Polistena, Taurianova e Cittanova per fare gli abbonamenti sempre più costosi, perché sente i lavoratori del porto e degli altri paesi che devono organizzarsi con le macchine per tornare a casa dopo il lavoro.
Sulla tratta Gioia Tauro-Cinquefrondi, 32 chilometri tra mare e montagna, servita fino a 5 anni fa dalle ferrovie della Calabria, le corse proseguivano fino alle sette, otto di sera. Ma oggi chi vuole spostarsi anche solo per andare al mercato o al centro commerciale o al lavoro può far conto quasi solo sul trasporto privato. «Da qui partivano anche treni merci e c’erano 23 corse», racconta la Furfaro, «oggi, con i pullman soltanto 12. Quando ci lavorava mio padre c’erano tre o quattro capistazione, la posta, un manovratore, poi il personale è andato via via assottigliandosi e oggi ci sono soltanto io». I prezzi sono raddoppiati e un biglietto per 32 chilometri costa 2 euro e 80. Tra i binari e tra le banchine crescono le erbacce. Caterina le taglia e mette in ordine. E intanto spera che cambi qualcosa perché «i soldi ci sono, dobbiamo prendere ottimi ingegneri che possano rimettere in piedi la tratta e rendere un servizio alla comunità. Noi qui abbiamo lo stocco, possiamo aprire bei ristorantini, trattorie per esaltare i nostri prodotti e attirare il turismo, far arrivare in altre zone le nostre eccellenze. A San Giorgio si raccolgono funghi buonissimi, abbiamo alberi secolari di ottime olive.Quante cose si potrebbero esportare… Se solo si volesse».