«Per praticare la nonviolenza, innanzitutto bisogna essere neri». Al mio sguardo stupito, Alberto Capannini si affretta a spiegare: «Significa appartenere a un popolo che soffre». Allora si può comprendere la sofferenza. Tutto qui? «No, se si trattasse di una torta, direi che servono tre ingredienti fondamentali. Il primo è provare a pensare che la nostra vita vale come quella degli altri, non siamo sopra. Chi pensa il contrario, è razzista. Non è che noi non possiamo vivere in un campo profughi, e gli altri invece sì. Il secondo è provare qualcosa di alternativo alla violenza della guerra. Non c'è uno standard rispetto a quello che facciamo, le proposte nascono andando a vivere sui territori, ascoltando le persone. Mi occupo in particolare di Libano. Recentemente, abbiamo scritto un progetto di pace, assieme ai profughi siriani, e l'abbiamo consegnato a Bruxelles al vicepresidente della Commissione Europea, Frans Timmermans, con la proposta di creare delle zone umanitarie neutrali sottoposte a protezione internazionale e la possibilità di presenza ai negoziati per la pace di Ginevra dei rappresentanti dei civili siriani, che hanno rifiutato l'uso delle armi nel conflitto».
Alberto Capannini, riminese, 50 anni, una moglie, due figli, è volontario di Operazione Colomba, corpo nonviolento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, fin dalla sua fondazione, nel 1992. Nel suo “bagaglio” ci sono Croazia, Bosnia Herzegovina, Albania, Sierra Leone, Macedonia, Indonesia, Repubblica Democratica del Congo e tanti altri Paesi. Porterà la sua testimonianza al convegno nazionale di Pax Christi Italia, che si terrà a Bologna, il 30 e 31 dicembre; l'evento introdurrà la 49esima “Marcia nazionale per la pace”, promossa assieme all'Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro, Caritas italiana, Azione Cattolica italiana, e organizzata dalla Diocesi di Bologna. L'ispirazione viene dalle parole di papa Francesco, nel Messaggio per la 50esima Giornata mondiale della pace, che sarà celebrata il primo gennaio 2017. “Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace”.
Il convegno si intitola “Nonviolenza unica 'arma' che genera pace”. «Siamo degli ipocriti», continua Alberto. «Ci lamentiamo delle armi e poi le vendiamo a chi ne fa uso. Dati alla mano, chi vende più armi al Medio Oriente in guerra, è l'Italia. Dalle Torri Gemelle in poi, per combattere la violenza, il modello che ci viene proposto è quello israeliano, basato sulla militarizzazione, ma che in realtà non ha portato nessuna sicurezza a Israele. È come quando si tiene un piede sulla testa di qualcuno, finché schiacciamo, ci sentiamo forti, ma non appena molliamo, siamo a rischio. È questo che succede per Israele, che pertanto non può permettersi di essere altro che un oppressore. È un modello fallimentare».
Capannini conosce bene il modello israeliano, perché Operazione Colomba è presente in Israele e Palestina dal 2004. «Lì facciamo attività di accompagnamento dei palestinesi lungo la strada che collega At-Tuwani a Tuba, perché sempre più spesso i coloni cercano di impedire il passaggio a chiunque, donne e bambini compresi. E poi monitoraggio. Filmiamo i soprusi e sporgiamo denuncia all'Autorità israeliana, inviando anche i filmati. La comunità di At-Tuwani ha scelto di non rispondere alle provocazioni con la violenza e noi la sosteniamo. La denuncia supportata dalle immagini rappresenta già un deterrente».
Operazione Colomba è presente anche in Colombia e Albania. «In Colombia sosteniamo le comunità di pace che, dopo l'accordo raggiunto a metà novembre tra Governo e FARC, hanno scelto di essere neutrali. In Albania, siamo vicini alle famiglie. Lì ci sono faide che si perpetrano da una vita, con le persone sempre a rischio, perciò accompagniamo gli anziani all'ospedale, le donne a far la spesa, a trovare i parenti... E poi ricerchiamo i presupposti per una proposta di riconciliazione, che è il terzo ingrediente della nostra torta, cioè il nostro obiettivo principale».
Libano, Palestina, Colombia, Albania... «Sono esperienze molto diverse, che però è importante si conoscano, si parlino, si uniscano, per questo abbiamo fatto incontrare in Italia alcuni profughi siriani con Hafez Huraini, leader della lotta nonviolenta ad At-Twani. Fortunato il volontario che riesce a lavorare in tutti i Paesi, perché si ritrova molto arricchito. Io dico che l'agire di un volontario somiglia molto al jazz, non c'è un copione scritto, bisogna conoscere bene la lingua e la situazione del Paese in cui ti trovi, e poi serve una buona capacità di improvvisare, nel senso più alto del termine, perché non esiste una soluzione che va bene sempre. Così come è successo con l'iniziativa dei corridoi umanitari, è nata quando la gente ci ha detto, noi andiamo, prendiamo i barconi. Abbiamo pensato a come fare per impedire altre morti».
Nel mondo di oggi, la nonviolenza non sembra andare molto di moda. «Io sono molto speranzoso. Il mio problema non è cercare di convincere gli altri, il mio problema è sempre convincere me stesso, quindi una volta convinta la mia durezza, il resto è in discesa: nessuno resiste a una persona che crede in quello che fa. Io penso che la nonviolenza sia qualcosa di significativo e di cose significative c'è un bisogno estremo. Molte persone hanno una grande tristezza, sentono di perdere tempo nella propria vita. Questa è la vera crisi. Quello che faccio è difficile, è controcorrente, ma lo amo, perché so che ha un significato. Dall'altra parte c'è il vuoto. L'unica proposta che si riesce a fare è la costruzione di muri. Questo poteva andar bene 40 anni prima di Cristo, ma nel 2016 è come se ci curassimo con i metodi dei druidi. Se ascoltassimo quello che ci chiedono i profughi, ci accorgeremmo che non ci chiedono di venire da noi, ma di espellere la guerra dalla storia. La guerra è qualcosa che non ci possiamo più permettere. Perché non fare nostra questa proposta? L'Italia potrebbe essere un'enorme potenza non violenta invece che una misera potenza bellica, fanalino di coda di interventi militari inefficaci. Quello che diceva Tacito della guerra, è quello che succede oggi in Siria: fanno un deserto e la chiamano pace. Sono solo ripetizioni di errori. È venuto il tempo di superare questo combattere la violenza con altra violenza, di cambiare punto di vista. La nonviolenza è un modo di pensare che viene dal futuro, che dobbiamo prendere a prestito dai nostri figli, è una strada ignota, tutta da costruire, ma è interessante, perché è una novità in un mondo come il nostro, invecchiato, privo di prospettive».
Per saperne di più: http://www.paxchristibologna.it/convegno.html