«Il
Centrafrica è oggi un Paese alla deriva, con tutta la popolazione
intrappolata come in un campo di concentramento, in ostaggio del
governo Seleka, anche lui a sua volta alla deriva»:
è un grido accorato, quello di mons. Juan José Aguirre Muños,
vescovo di Bangassou.
La
Repubblica Centrafricana, da sempre Paese poverissimo e instabile,
sta attraversando una situazione molto delicata, da quando lo scorso
23 marzo i ribelli della coalizione Seleka hanno preso il potere,
mettendo in fuga il presidente François Bozizé (che a sua volta era
giunto al potere con un colpo di Stato).
Dopo
mesi di caos, il nuovo Presidente, il capo dei ribelli Michel
Djotodia, il 13 settembre ha annunciato lo scioglimento della Seleka,
notizia in sé più che positiva, ma attualmente tutta sulla carta.
Ancora nessuna iniziativa è stata avviata perché i 25 mila ribelli
depongano le armi.
A
lavorare per la pace si è messa anche la Comunità di Sant'Egidio,
che dal 6 al 10 settembre ha convocato a Roma i rappresentanti del
governo di Bangui, del Consiglio nazionale di transizione, delle
confessioni religiose e della società civile, giungendo alla firma
di un appello per la pace e la riconciliazione e alla stesura di un
“patto repubblicano” per la difesa della democrazia e dei diritti
umani, anche tramite strumenti permanenti per la prevenzione e la
gestione dei conflitti.
Scelte
quanto mai necessarie, come dimostrano sia gli appelli delle agenzie
internazionali che le testimonianze dirette sul campo: l'Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha lanciato un
appello alle autorità perché proteggano i civili in fuga dalle
violenze riaccesesi nella capitale Bangui, con arresti arbitrari,
torture, estorsioni, violenze, saccheggi e oltre 5 mila sfollati che
andavano ad aggiungersi ai 260 mila già presenti nel Paese.
La testimonianza del missionario carmelitano padre Aurelio Gazzera
Se
la capitale è nel caos, infatti, il resto del Paese va peggio: bande
armate, insicurezza, cui si somma il fatto che la maggior parte delle
agenzie umanitarie si sono ritirate nella capitale, lasciando allo
sbando la gente dei villaggi e delle altre città. Con l'avanzata
delle forze Seleka, sei
mesi
fa, gli ospedali sono stati saccheggiati e il personale sanitario è
fuggito, oggi dunque la maggior parte della popolazione non ha
accesso alle cure minime. Senza contare – denuncia Medici Senza
Frontiere – la mancanza di fondi, che non vengono stanziati
nonostante le pressanti richieste.
Testimone
di tutto ciò è padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano in
Centrafrica da 22 anni e direttore della Caritas diocesana di Bouar,
città nell'Ovest del Paese, che non teme di denunciare quanto
accade, esponendosi a frequenti minacce.
L'ultima
il 16 settembre: il missionario, dopo aver visitato due persone che
erano state incarcerate senza motivo e torturate dai ribelli
(entrambe avevano perso un occhio), era andato al loro quartier
generale locale, per chieder conto di tali e tanti soprusi. Accolto
con arroganza, minacciato di morte dai militari e dal loro capo, si è
sentito rifiutare la richiesta di liberare almeno uno dei detenuti
che versava in gravi condizioni ed è stato poi percosso e minacciato
con una pistola da un altro ufficiale sopraggiunto nel frattempo.
Padre
Aurelio coordina le attività della Caritas a Bozoum (dove ormai ci
sono 6.400 sfollati, tra cui 3 mila bambini), ma si fa anche carico
di raccontare cosa accade in particolare nelle “periferie”, nei
villaggi abbandonati dalle grosse organizzazioni internazionali. Come
Bohong, saccheggiato e incendiato dai ribelli a metà agosto, come
rappresaglia per l'uccisione di quattro loro uomini da parte della
popolazione esasperata dai continui taglieggiamenti e soprusi.
«All'inizio
di settembre»,
racconta il missionario, «ci
siamo recati nel villaggio insieme all'arcivescovo di Bangui, mons.
Dieudonné Nzapalainga, la cui presenza ha portato conforto alla
popolazione. All'arrivo, ancora scheletri e teschi abbandonati per le
strade... Dopo la celebrazione, la gente ha preso la parola,
raccontando i propri drammi, l'uccisione di un marito o di un figlio
davanti ai propri occhi».
"Non è una guerra religiosa, ma per il potere e le risorse"
«C'è
dolore, ma non rabbia»,
continua padre Aurelio. «“Ma
non siamo centrafricani anche noi?” chiede uno. Un altro commenta:
“Siamo schiavi...” Quanti Bohong ci sono? Quando finirà? Mi
auguro che ci sia il prima possibile un minimo di ritorno alla
normalità per la gente. Ma anche che questa stessa gente impari a
non subire tutto passivamente, che impari a reagire. “Chi ha paura,
muore ogni giorno”, diceva Paolo Borsellino».
E
prosegue: «Ciò che preoccupa è la frattura che si sta creando tra
la comunità musulmana e gli altri: ci vorrà molto tempo per
ricostruire, ma molto di più per ricreare una convivenza serena...».
Nonostante
ciò, o proprio per questo, sabato 14 settembre si è tenuto un
incontro fra tutti i leaders religiosi locali: cattolici, protestanti
e musulmani, che insieme hanno pregato ed esortato la popolazione a
non lasciarsi travisare dalla paura, dall'odio e dal disprezzo.
Spiega
ancora padre Aurelio: «Non
è certamente un conflitto religioso, in prima istanza, ma l'elemento
si sta facendo presente in modo pericoloso, col tentativo di dare
alla componente musulmana più potere. Il fatto poi che i ribelli
parlino arabo e che non facciano quasi mai del male ai musulmani
certo non rende facile la coabitazione. Come tutti i conflitti, la
ribellione sta facendo emergere il peggio che c'è. E anche questo
elemento di tensione religiosa è una conseguenza molto negativa. Il
dialogo permette di prendere delle precauzioni e cercare di evitare
il peggio».
La
tensione tuttavia non accenna a diminuire: nei giorni scorsi due
granate inesplose sono state rinvenute nella cattedrale di Bossangoa.
A questi episodi fa
eco la testimonianza di un'altra italiana, Stefania Figini,
missionaria
laica.
Nonostante
lei stessa sia incappata
in una brutta avventura con
i ribelli lo scorso aprile, rimane categorica: «Si
parla sempre più spesso di scontri a sfondo religioso, di ribelli
musulmani, anche di profanazione di chiese. Ho vissuto in Centrafrica
per undici anni, dal 1995 al 2006, e ora vi passo alcuni mesi ogni
anno. La convivenza tra cristiani e musulmani è storicamente solida.
I musulmani mi hanno sempre protetta e aiutata. Non è una questione
a sfondo religioso. Chi lo fomenta getta benzina sul fuoco. Il
Centrafrica storicamente non ha mai avuto tensioni di questo tipo, ha
una forte presenza cristiana e una minoranza musulmana».
«Sì,
ci sono stati saccheggi di missioni, ma è ovvio: i ribelli cercano
auto, gasolio, computer e vanno dove sanno di trovarli»,
insiste Stefania Figini. «Ma
non risparmiano nemmeno i villaggi. Usano solo il linguaggio delle
armi, sparano al minimo sospetto. È la distruzione che accompagna
purtroppo tutte le guerre: non è una guerra religiosa, ma politica e
di risorse, studiata
dall'esterno per far capire all'ex presidente e all'attuale che chi
comanda non sono loro. In
gioco ci sono enormi interessi, nel sottosuolo abbiamo petrolio,
uranio, oro, diamanti. E questi ribelli sono finanziati dall'esterno,
hanno armi sofisticate che da noi non s'erano mai viste. Ogni dieci
anni in Centrafrica c'è un colpo di Stato e ciò ha minato la
capacità di formare le coscienze. Chi
ci va di mezzo è sempre la povera gente, a cui è tolto anche il
poco che ha».