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lunedì 20 gennaio 2025
 
 

Tony Cercola: il mio canto per gli ultimi

10/10/2011  Il percussionista partenopeo racconta "Voci scomposte", il suo nuovo album: "Sono le voci del disagio e della sofferenza, quelle che non si vorrebbero ascoltare".

    Da Napoli alla Russia, passando per il Senegal e il Venezuela. In Voci scomposte (Egea) c'è la città partenopea e c'è il mondo. Tony Cercola, eclettico percussionista e compositore napoletano - o meglio "percussautore", come lui stesso ama definirsi - l'ha realizzato in tre anni di ricerca, fondendo ritmi, culture, anime artistiche differenti, ma tenendo sempre come punto di riferimento la sua terra di origine, Napoli, «la culla della canzone italiana», osserva Cercola, «una città che sta cercando di rinascere». In questo progetto discografico, il settimo album del musicista partenopeo, sono stati coinvolti quasi quaranta artisti, fra i quali Edoardo Bennato, Enzo Gragnaniello e Daniele Sepe. Nel suo percorso musicale, Cercola ha collaborato anche con Pino Daniele, Mia Martini, Eduardo De Crescenzo, Eugenio Bennato. A Portopalo di Capopassero (Siracusa), ha appena ricevuto una "menzione speciale" del Premio nazionale di giornalismo, saggistica e letteratura "Portopalo, Più a sud di Tunisi", che si svolge da sei anni nel borgo marinaro siciliano, situato, appunto, al di sotto del parallelo della capitale tunisina.

- Come nasce Voci scomposte?
«Innanzitutto si tratta di un disco molto visivo, quasi teatrale: ogni traccia è abbinata a un'immagine realizzata da pittori e fumettisti. Voci scomposte sono le voci degli ultimi, quelle che non si vorrebbero mai ascoltare. Ho passato due anni in giro per l'Italia e l'Europa, parlando con la gente, con tutti. L'album si apre con una serie di voci, come quella di un venditore di collanine srilankese. Le voci scomposte evocano l'anti-canto. In questo disco non ci sono cantanti, io stesso non lo sono, la mia è una voce gutturale. Il disco esprime la voce del disagio, di chi soffre negli ospedali; nasce dal mio incontro con il dolore».

- Incontro con il dolore, in che senso?
«In questo album c'è molta amarezza. Io sono uno che sta molto più vicino alla sofferenza che al piacere. Mi sono occupato di ritmoterapia con i malati mentali perché volevo abbracciare gli altri.  Il piacere è ovvio, effimero. Il dolore, invece, è una grande fucina di ricerca artistica. Basti ricordare, del resto, che il blues nasce come canto di dolore e malinconia».
 

- Hai creato il "lumumbese". Puoi spiegare?
«Nella quarta traccia dell'album, Lumumba, canto con un artista senegalese, Laye Ba. E ho inventato un linguaggio nuovo, il "lumumbese": una sorta di percorso etno-vesuviano che attinge un po' dal dialetto napoletano e un po' da quello vesuviano». 

- Bolero romano è dedicata a tuo padre...
«Sì, questo brano è stato arrangiato dal pianista e direttore musicale Enrico Arias, che una volta, quando è venuto a Napoli, ha ascoltato questo pezzo e gli è piaciuto molto. E' una melodia al pianoforte e, all'inizio, ho inserito la voce di mio padre. Anche la sua è una voce scomposta, una di quelle voci che spesso tieni nascoste».

- Come artista sei impegnato nella ricerca dialettale.
«Ora vado a Colonia, in Germania, a tenere un workshop sul dialetto veneto e quello napoletano con la musicista veneta Erica Boschiero, per la rivalutazione delle radici culturali».   

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