La giustizia italiana, vista da
questo soggiorno milanese,
sobrio, luminoso, ordinato,
prende la forma di una corsa
a ostacoli per chi la deve fare
e per chi la vuole avere, con
il rischio di avvantaggiare
i disonesti e di togliere fiducia agli onesti. Piercamillo Davigo
ne parla con disincanto, stemperato
dall’ironia. Lo fa da quasi 40 anni, deciso a non arrendersi al caos che la complicazione
del reale accresce, tra globalizzazione
economica e criminale, e
pronunce di Corti sovranazionali. Ha
imparato a conoscere la corruzione da
pubblico ministero al tempo di Mani
pulite, da anni la osserva con lo sguardo
più d’insieme del giudice, prima di
Corte d’Appello, ora di Cassazione.
Da poco presiede l’Associazione
magistrati, la sua franchezza ha già
fatto notizia. Ma in questa stanza linda
il polverone non s’è depositato.
Dottor Davigo, davvero cita il
Vangelo sul biglietto da visita?
«No, ma siccome mi si dice che
sono poco incline alla mediazione, mi
capita di citarlo: “Il vostro parlare sia
sì sì, no no il di più viene dal maligno”
(Ride). Tendo a pensar male dei discorsi
fumosi, preferisco la chiarezza».
Dopo la riunione della Giunta
dell’Anm sarà meno diretto?
«Non credo. L’incontro serviva per
vericare l’unità interna alla Giunta
che è stata affermata con forza. La polemica
è nata sulle parole che mi attribuiscono
e non ho detto (“I politici
rubano tutti”, ndr)».
Corruzione, mafia, evasione frenano
l’Italia. Il dibattito si ferma sullo
“scontro” politica-magistratura.
Guardiamo il dito anziché la luna?
«Si tende a non vedere problemi
annosi, perché sarebbe difcile spiegare
come mai non vengano affrontati
se solo ci fosse la percezione della loro
pericolosità. Ho l’impressione che se
ne parli in teoria ma che non si cali
nella pratica questa pericolosità devastante
per la sopravvivenza del Paese»
Come si contrasta la corruzione?
«La corruzione è nota solo a corrotti,
corruttori e intermediari, non
viene quasi mai denunciata, di solito
si scopre per caso indagando su altro.
Occorrono strumenti per farla emergere.
Penso che sia giusta la strada
intrapresa dal Governo per lo sconto
di pena a chi collabora, ma servono
sconti più forti, per bilanciare l’enorme
vantaggio che chi parla perde e poi
bisognerebbe estendere le norme sui
collaboratori di giustizia: quando il
mercato illegale che nasce dalla corruzione
è gestito dal crimine organizzato,
chi collabora va anche protetto».
Tre priorità per la giustizia.
«Ridurre il contenzioso: se i processi
durano molto è anche perché
sono troppi. Semplificare le procedure:
troppo complesse, farraginose.
Rendere effettiva l’esecuzione delle
sentenze: nel civile chi ottiene ragione
in giudizio a volte poi fatica lo stesso a
riavere i soldi dovuti dal debitore»
Intanto cala la fiducia dei cittadini
nella magistratura.
«Scontiamo il prezzo dell’inefficienza della giustizia, ma finché le regole
incentivano chi ha torto a resistere
in giudizio non se ne esce».
Perché è così difficile accordarsi per
cambiare la prescrizione che fulmina
oltre 100 mila processi l’anno?
«Bisognerebbe chiederlo a chi non
si accorda. La prescrizione è ineliminabile,
c’è in tutti gli ordinamenti, ma
dovrebbe non decorrere più dopo che
il processo è iniziato. Servirebbe anche
a disincentivare la tendenza a resistere
in giudizio e a impugnare. Negli
altri Paesi, a parte la Grecia, cessa con
l’inizio dell’azione penale o al più tardi
con la sentenza di primo grado. Da noi
un imputato condannato che ha fatto
ricorso in appello solo per chiedere una pena più bassa, se scatta la
prescrizione nel frattempo, non sconta
più neanche la pena più bassa che
chiedeva. Non è ragionevole, ci obbliga
a lavoro inutile».
C’è chi dice che basterebbe togliere
l’azione penale obbligatoria...
«Dove è discrezionale le linee guida,
dettate dalla politica, mettono la
corruzione in cima alle priorità. Ma
da noi l’obbligatorietà è un caposaldo
previsto dalla Costituzione a garanzia
dei cittadini».
Il suo ex collega Gherardo Colombo
dice che lei ha poca ducia nel genere
umano. Ha ragione?
«(Ride ancora) S’illude che il parlare
con i ragazzi nelle scuole li renda
migliori: ma so che da studente avrei
preferito una lezione di Gherardo
Colombo all’interrogazione. L’educazione
è fondamentale ma ha tempi
lunghi. Adam Smith diceva: “Il fornaio
non ci vende il pane per generosità, ma
perché gli conviene”. Finché in questo
Paese avremo regole che favoriscono
chi viola la legge contro chi subisce
l’effetto della violazione, le persone
tenderanno a non rispettare la legge.
Se all’abuso edilizio segue il condono
l’abuso si ripete».
Quante sentenze scrive?
«Circa 500 e 250 ordinanze l’anno»
È vero che la Cassazione così intasata
rende il diritto meno certo?
«Sì. Facciamo quasi 100 mila processi
l’anno tra civile e penale contro
i 1.ooo della Cassazione francese e gli
80 della Corte suprema americana: ciò
genera contrasti inconsapevoli che si
sommano a quelli derivanti da norme
ambigue. Spesso si deve decidere
prima
di poter sapere che un altro collegio
ha deciso diversamente su un caso
analogo: se usassimo il tempo necessario
a studiare tutti gli atti che produciamo,
paralizzeremmo la Cassazione,
ma così è difcile assicurare l’uniforme
interpretazione del diritto»
Che cos’è l’indipendenza?
«Il nostro motto è “senza timore
e senza speranza”. Il magistrato non
deve temere ritorsioni e non deve
avere ansia di premi. La Costituzione
ci protegge dalle ritorsioni, dalla tentazione
di nomine a incarichi ben retribuiti
o di candidature alle elezioni
non ci sono norme che ci proteggono
e deve bastare la coscienza»
Ci vorrebbero?
«Non so. Negli altri Paesi i diritti
politici si tolgono ai delinquenti: sarebbe
strano che da noi li levassero ai
magistrati. Dovremmo astenerci per
coerenza: come vedremmo un guardalinee
che a metà partita mette la casacca
di una squadra e gioca? Ma la più
difficile è l’indipendenza da sé stessi:
la caratteristica più importante di un
buon magistrato è la capacità di cambiare
opinione quando i fatti smentiscono
l’opinione che si è fatto».