Sulla piazza della stazione
di Zermatt, in Svizzera, c’è
un grande orologio della
Tissot che dal 14 luglio
2014 scandisce il conto
alla rovescia per arrivare
alle 13.40 del 14 luglio
di quest’anno, quando
saranno trascorsi esattamente 150
anni dalla prima scalata della montagna
che gli svizzeri chiamano Matterhorn,
gli italiani Cervino e gli alpinisti
la Gran Becca, un nome più
adatto all’enorme ammasso di roccia,
neve e ghiaccio che costringe chiunque
– anche solo un camminatore di
sentieri – ad alzare lo sguardo e ssarlo
con riverenza sulle pareti.
Come spiega uno che lo conosce
bene, Hervé Barmasse, «il Cervino
seduce e respinge, ammalia e strega.
Il Cervino è Re. Si esprime senza proferire
parola e benedice i suoi sudditi
senza alzarsi dal trono. Cattura l’occhio
come la piramide di Cheope e ci
guarda crescere senza giudicare». Forse per questa ragione, la guida francese Gaston Rébuffat scrisse che un uomo di fronte a lui non è mai un uomo comune.
Un uomo comune Barmasse di
certo non lo è, con le sue imprese alpinistiche
come, tanto per citare la
montagna di casa, il “primo concatenamento”
delle quattro creste del Cervino
in solitaria in 15 ore, con prima
solitaria degli strapiombi di Furggen
nel 1985 e il “Couloir Barmasse” sulla
Parete sud nel 2010 con il padre Marco.
Non sono comuni neppure i suoi racconti
speciali a immagini (bellissime
fotograe e lmati toccanti) e parole,
come il recente libro La montagna dentro
(Laterza), da leggere tutto d’un ato
anche per intravedere nella sua passione
quella dei tanti, tantissimi che
l’arrampicata della Becca hanno
sognato, studiato, preparato, realizzato,
ma anche fallito.
La conquista stessa del resto fu
funestata da un dramma: dopo il raggiungimento
della vetta dell’inglese
Edward Whymper, accompagnato da
Lord Francis Douglas, Charles Hudson,
Douglas Robert Hadow e dalle guide
Michel Croz e Peter Taugwalder padre
e figlio, la morte sulla via del ritorno
dei tre connazionali di Whymper e di
Croz per un incidente che suscitò
molti interrogativi.
Fino a quel momento la lotta per la
conquista era stata accesissima (come
racconta molto bene Paolo Paci nel suo
libro Nel vento e nel ghiaccio. Cervino un
viaggio nel mito, appena pubblicato da
Sperling & Kupfer) tra la svizzera Zermatt e l’italiana Breuil, da cui si era
mosso il gruppo di alpinisti che riuscirono
ad arrivare in vetta solo
tre giorni dopo, il 17 luglio, guidati
da Jean-Antoine Carrel, Jean-Baptiste
Bich, Amé Gorret e Jean-Augustin
Meynet.
«Whymper era un ragazzino imberbe
di Londra che disegnava le Alpi
per il suo editore», racconta Barmasse,
«mentre Carrel era il cacciatore barbuto
di Valtournenche che si era battuto
a Novara e Solferino nelle guerre per
l’indipendenza. Per quel motivo si era
guadagnato il soprannome “il Bersagliere”.
Whymper sognava di diventare
famoso come i grandi esploratori
britannici, Carrel sperava di fare
qualche soldo per sfamare la moglie
e i numerosi figli. L’inglese scalava
per sé stesso, era un sano egoista, uno
sportivo. Il valdostano si arrampicava
per la Valle d’Aosta e l’Italia».
Tante storie legate al Cervino, del
resto, hanno visto come protagonisti
non solo alpinisti famosi ma anche
scalatori dilettanti e guide sconosciute
ai più. Anche Achille Compagnoni,
il conquistatore del K2 che, di origine
valtellinese, ha vissuto a Cervinia tutta
la vita, ci raccontò spesso che i suoi
ricordi più belli erano legati ai tanti
clienti accompagnati come guida e anche
ai molti salvataggi compiuti dalle
guide. A cominciare da Carrel che,
come ricorda l’iscrizione sulla croce ai
piedi del Cervino, a cui tutti gli alpinisti
chinano il capo in forma di rispetto,
morì di sfinimento dopo aver portato
in salvo un cliente.