Si può però e si deve, invece, cercare di vivere – kivjakôl, “se così si potesse dire”, secondo l’espressione ebraica che indica i limiti del linguaggio umano quando deve parlare del mistero di Dio – un po’ dell’angoscia mortale dei suoi genitori, pensando, se siamo credenti, che ci troviamo di fronte appunto ad un mistero come quello del Venerdì Santo.
Non abbiamo la competenza né medica né giuridica per entrare nel merito del complesso iter clinico-giudiziario di questa vicenda, su cui molto è stato già scritto. Restano però le angosciose, laceranti domande che moltissimi si sono fatti: perché a Charlie viene impedito di continuare a vivere fino al termine naturale della sua malattia? Perché parlare di “accanimento terapeutico” che prolunga le sofferenze, quando è impossibile dimostrarlo “al di là di ogni ragionevole dubbio”? Perché combattere con tale accanimento (qui il termine sì che è indicato) la volontà, l’amore, l’abnegazione dei suoi genitori? Perché chiudere ogni porta, ogni spiraglio, ogni tentativo anche apparentemente inutile per un caso che per la sua rarità e gravità esce da tutti gli schemi precostituiti? Perché rifiutare addirittura ciò che i genitori chiedevano nel loro straziante ultimo appello, potere almeno portare Charlie a casa, fargli un bagnetto, distendersi assieme sul sofà?
Tutto questo è, come si sono espressi i vescovi inglesi, heartrending: fa piangere il cuore. E proseguono: «Noi speriamo e preghiamo perché i genitori di Charlie nei prossimi giorni e mesi possano trovare alfine pace. Chiediamo a tutti i cattolici di pregare per Charlie, la sua famiglia, chi si è preso cura di lui. Purtroppo, malattie terminali prolungate fanno parte della condizione umana, ma non dovremmo mai agire con la deliberata intenzione di porre fine a una vita umana, anche se alle volte dobbiamo riconoscere i limiti di ciò che si può fare, accudendo con umanità la persona malata fino al sopraggiungere della sua morte naturale».
In questi casi il crinale è stretto, le scelte al limite dell’umana comprensione. Non facciamoci dominare però, come ci richiama continuamente papa Francesco, dalla “cultura dello scarto”.