Che vite erano quelle di Valentina Gallo, Elena Maestrini, Serena Saracino, Elisa Scarascia Mugnozza, Francesca Bonello, Lucrezia Borghi, Elisa Valent? Chi erano le sette ragazze italiane decedute con altre sei coetanee nella tragedia consumatasi il 20 marzo scorso, in Catalogna lungo l’autostrada AP-7 nello schianto del pullman che da Valencia le stava riportando a Barcellona? Che storia raccontano?
L’acerba biografia di queste giovani studentesse, che un tragico e beffardo destino ha unito per sempre, al di là della contingenza della cronaca nera, dell’ennesima discussione post-mortem sulla sicurezza dei servizi di trasporto, forse può dirci qualcos’altro di meno effimero, e addirittura profondamente consolatorio.
I funerali di Francesca Bonello (foto Ansa)
Elisa Valent, appassionata di letteratura, prestava il suo tempo per iniziative culturali nel suo paese, faceva la volontaria alla “Fiera delle Parole” di Padova. Serena Saracino era “una ragazza straordinaria”, così la ricordano le persone più vicine a lei. Voleva fare la farmacista ospedaliera per stare vicino alle persone che soffrono. Elena Maestrini, iscritta a Economia aziendale, era studiosissima ed entusiasta di poter fare un’esperienza formativa all’estero, grazie ad Erasmus. Valentina Gallo, che attendeva la madre per trascorrere qualche giorno con lei a Barcellona, era una studentessa modello ad Economia a Firenze. Elisa Scarascia, a ottobre si sarebbe laureata in medicina alla Sapienza. Al padre aveva confessato di voleva andare a fare il chirurgo nei Paesi in via di sviluppo. Lucrezia Borghi, studentessa toscana di Economia, quando non studiava, faceva la catechista e l’animatrice ai campi estivi della parrocchia. Francesca Bonello, iscritta alla facoltà di medicina, era andata in Romania e in Ciad come volontaria e seguiva un itinerario spirituale guidato dai gesuiti.
Setta ragazze come tantissime in Italia. Lo ha detto proprio il padre di Francesca, sorpreso dall’attenzione mediatica nei confronti della figlia: “Mia figlia poteva essere figlia di tutti. Perché tanta attenzione per una famiglia normale?”
Stavolta la notizia è proprio la “normalità” positiva che emerge da questi spaccati di vita. Perché l’impegno nello studio, la mondialità, l’interesse sociale, l’impegno civile e nel volontariato spesso non emergono dai sondaggi e dalle fotografie statistiche delle nuove generazioni. Anzi a credere ai report dell’Istat, i nuovi giovani sarebbero meno disposti a regalare il proprio tempo per aiutare gli altri. Ma è davvero intercettabile un’attività solidaristica compiuta in modo discreto, silenzioso e senza riflettori?
Lasciateci almeno sospettare che le asettiche ricerche sociologiche spesso non riescano a tracciare “la meglio gioventù” presente nel nostro Paese; che siano studenti “Erasmus” o no, poco importa. Ci parlano di “bamboccioni” mai cresciuti, inoccupati, dediti a chattare e a fumarsi l’anima e il corpo per un sabato da sballo. E poi accade che la cronaca anche la più maledetta e brutale ci squaderna le esemplari biografie di Valeria Solesin, di Giulio Regeni e adesso di queste studentesse. E ti senti spiazzato. Non ti tornano i conti. E’ il paradosso mediatico che scatta talvolta: la cronaca nera, che in genere mostra il lato oscuro, “nero” appunto, quello più impresentabile di una società, o più drammatico, questa volta redime un’intera generazione, fa giustizia su luoghi comuni, scopre inaspettatamente “il bello e il buono”.
Quel torpedone impazzito sulla strada per Barcellona, che tanto lutto e strazio ha distribuito alle famiglie delle vittime, forse, come faceva la catarsi tragica per gli spettatori ateniesi che assistevano a un dramma di Sofocle, ci può restituire almeno una consolante possibilità: quella di poter usare l'aggettivo “normale” quando si parla di gioventù, senza inorridire davanti ad esso. Troppe volte, in occasione di fatti di cronaca efferati, commessi da giovani balordi, abbiamo sentito l’agghiacciante commento di familiari o amici: “Erano persone normali. Conducevano una vita normale…”.
Preferiamo “la normalità” a cui alludeva Papà Bonello, parlando della figlia. Don Antonio Mazzi proprio pochi giorni fa su questo sito commentava l’omicidio di Luca Varani in questo modo: “La bestialità e il sadismo, la fame di massacro centellinato e pilotato sono l’incarnazione di un nuovo tipo di bestia, chiamata uomo per ipocrisia. Ulteriore assurdità si è consumata in un noto programma Tv, nel quale il papà di uno dei due imputati ha descritto il figlio come normale, nonostante si facesse di cocaina da anni, spendendo cifre altissime, nonostante fosse in terapia e soffrisse di grossi complessi identificatori”. Ma “normale” de che? Si chiede con sacrosanta ragione il sacerdote.
Dobbiamo a Elisa, Valentina e alle altre giovani ragazze scomparse dentro quel bus spagnolo, e perché no anche alle loro famiglie e ai loro educatori, se possiamo ancora dire “normale” per significare “normale”. E se possiamo credere che la normalità sia ancora possibile e auspicabile.
In fin dei conti questa storiaccia di cronaca è una bella metafora della Pasqua, perché trasforma il dramma in speranza.