Caro don Antonio, la mia fede è alla
deriva, provata da continue e pesanti
difficoltà esistenziali e professionali.
Ma anche a causa di alcune scelte inconcepibili
dei “miei” sacerdoti. Ho
sempre frequentato attivamente la
parrocchia, dove mi sono stati affidati diversi
incarichi. Conosco bene sia le persone che le
varie attività svolte in questi anni.
Ultimamente, però, sono molto perplesso
per alcune decisioni che interrogano la mia
coscienza. Papa Francesco insiste nell’invitare
i parroci a mettere a disposizione
strutture e locali per accogliere rifugiati e
profughi, privilegiando non i muri da conservare
o ristrutturare, ma il bene delle persone
bisognose. Lo impone il perdurare di una crisi
profonda, ma anche l’esodo biblico dei disperati
delle “carrette del mare”. La fede deve saper
accettare queste nuove sfide.
Nella mia “comunità pastorale” i preti vivono
ciascuno nella propria casa. Non si tratta
di monolocali, ma di alloggi spaziosi. In parrocchia
ci sono anche locali vuoti, chiusi e
inutilizzati da anni. Non nego le difficoltà,
anche economiche, che comporta alloggiarvi
persone estranee. In questi anni, però, tutti
gli investimenti parrocchiali sono stati destinati
agli immobili per valorizzarli ad altri usi.
Anche le panche, fortemente danneggiate dai
tarli, vengono prima delle persone.
I preti dovrebbero avere più coerenza tra
quello che dicono e ciò che fanno. Predicano
la carità, ma poi non accolgono l’appello di
papa Francesco a favore dei profughi! Per
questo sono confuso e demotivato. Come possono
essere testimoni credibili del Vangelo, se
per primi non vivono a fondo la propria vocazione?
In una copertina di Famiglia Cristiana lei
ha riportato queste parole di Francesco: «Una
Chiesa con le porte chiuse tradisce sé stessa e
la sua missione». Mi aiuti a capire.
LUCA P.
A un caso negativo se ne possono contrapporre
tantissimi in positivo. A una parrocchia
chiusa nelle sue mura autoreferenziali,
come quella che sta mettendo
in crisi la fede del nostro Luca, si può
opporre la straordinaria esperienza
della chiesa di Ventimiglia, con il suo giovane
vescovo Antonio Suetta (53 anni), che ha aperto
e messo a disposizione i locali e i cortili del seminario
per accogliere centinaia di profughi. Questi,
prima accampati sotto i ponti o sulle rocce in riva
al mare, dovevano essere sgomberati e rimpatriati
chissà in quale Paese o centro di identificazione e
smistamento, che spesso sono veri campi di concentramento,
dove la violenza è di casa.
A chi gli ha chiesto perché lo fa, monsignor
Suetta ha risposto: «Per umanità. E perché questa
gente ha sofferto in maniera indicibile, e
ha diritto a un po’ di assistenza, a un pasto decente,
a un aiuto anche psicologico. Questa non è
un’emergenza umanitaria, trecento persone possiamo
accoglierle benissimo. Tutte le parrocchie
italiane possono farlo. I migranti non sono
un peso, ma un dono». Parole che richiamano
quanto papa Francesco ha detto all’incontro in
Vaticano con quattrocento alunni delle scuole
medie calabresi, dove si è presentato portando
in mano un giubbotto salvagente appartenuto a
una bimba siriana morta in mare mentre cercava
di raggiungere l’isola di Lesbo: «I migranti non
sono un pericolo, ma sono in pericolo».
A uno di quegli alunni calabresi che gli chiedeva
come si possa essere cristiani, andare a Messa
e poi rifiutarsi di accogliere i migranti, papa Francesco,
a braccio, ha risposto che non bisogna essere
egoisti, ma avere il coraggio di scelte generose e
di condivisione. Lo straniero non deve spaventare
solo perché ha un colore diverso della pelle, una
cultura o una religione differente dalla nostra. La
vita è condividere, perché siamo tutti fratelli
e abbiamo Dio come padre.
I dati degli ultimi giorni, che riguardano i profughi
annegati nel Mediterraneo, nel tentativo di
giungere sulle nostre rive, sono davvero impietosi.
Si parla di centinaia di morti. Tra questi decine
di bambini e neonati. L’Unicef Italia lancia un
appello alle istituzioni e agli Stati per aprire dei
corridoi e dei percorsi sicuri per i bambini e le madri
in fuga dall’orrore della guerra. Nel 2015 settecento
bambini hanno perso la vita in mare: tutti
abbiamo pianto Aylan, il piccolo siriano morto in
mare e spiaggiato a Bodrum in Turchia. La foto di
quel bambino aveva commosso il mondo intero,
ma nulla è cambiato. Nel 2016 continua la stessa
“strage degli innocenti”, nell’indifferenza
generale. E, ancor peggio, nella colpevole ipocrisia
populista di chi grida e urla contro l’invasione
dello straniero. Ma a chi fanno paura questi poveri
neonati in balia delle onde del mare? O quelle
giovani ragazze incinte, dopo aver subito violenza,
che spesso partoriscono sulle “carrette del mare”?
Pietà, almeno, per le donne e i bambini!