«Ho spesso sentito dire che l’arte guarisce. L’ho sempre trovata un’affermazione arrogante. Quando sono però arrivato in questo ospedale in Israele, dove si stava facendo lezione di teatro, ho capito che i miracoli possono accadere solo sul palco», racconta così Roy Chen lo spunto da quale è partito per costruire il testo dello spettacolo Chi come me in scena al Teatro Franco Parenti di Milano dal 9 aprile al 5 maggio. L’ultimo per la regia di Andrée Ruth Shammah, direttrice artistica del teatro.
«Con questo spettacolo ho voluto raccontare la storia di tutti noi, noi adolescenti. Questi ragazzi ci rappresentano: l’ansia, la rabbia, l’angoscia, la paura. Sono noi ma con un’altra frequenza. Questa frequenza che abbiamo dentro deve essere come un terremoto e risulta più forte in questa piccola sala intima. Serve a far salire la compassione» conclude Chen.
La nuova sala A2A, fortemente voluta da Shammah e ottenuta dopo numerosi anni, è infatti “come un abbraccio”, a detta degli attori stessi, che conduce gli spettatori in un’intimità privata e segreta, a cui altrimenti sarebbe impossibile accedere. Le mura dell’ospedale psichiatrico nel quale sono ricoverati cinque ragazzi con diagnosi diverse coincidono con le mura della sala: non solo, parte della scenografia è costruita tra gli spalti, per cui i letti di alcuni ragazzi si trovano tra un sedile e l’altro.
Consenziente o meno, il pubblico diventa parte integrante dello spettacolo, spettatori di un dramma che si consuma sotto i loro occhi inermi. Gli straordinari giovanissimi attori Chiara Ferrari, Samuele Poma, Alia Stegani, Amy Boda e Federico De Giacomo interpretano, o meglio, vivono sulla propria pelle la depressione maniacale, la sindrome di Asperger, il disturbo ossessivo, il narcisismo e la rabbia incontrollata, la disforia di genere. Sebbene il Dottor Baumann (Paolo Briguglia) cerchi, al suo meglio, di prendersi cura dei ragazzi, deve fare i conti con quella “frequenza” che interferisce con i ragionamenti logico-razionali di uno psichiatra.
Ed è proprio passando attraverso un’altra forma di cura, non più scientifica ma artistica, che i frutti del lavoro vengono finalmente a galla: la nuova insegnante di teatro Dorit (Elena Lietti) conduce pian piano i ragazzi a dar voce ai propri disagi interiori, a entrare in contato l’uno con l’altro attraverso l’ausilio del teatro, del corpo, delle parole coscienti.
Chi come me è quindi il gioco messo in scena dai ragazzi per cercare di far comprendere, a sé stessi e al pubblico, come ci si sente a voler morire ogni giorno, a non sentirsi bene nel proprio corpo, a essere esclusi perché incapaci di controllare le proprie emozioni, a percepirsi sempre un passo indietro rispetto agli altri. I genitori, che vengono tutti interpretati da due eccezionali Pietro Micci e Sara Bertelà, specchiano la facciata esterna di ciascun ragazzo, ne delimitano il confine e il volume corporeo, ma non quello dell’interiorità.
Il teatro quindi, senza l’arroganza della scienza o della presunta maturità adulta, è in grado di risvegliare l’umanità di ciascuno, senza veli e senza maschere. La regia e l’adattamento di Shammah, che ha lasciato molta libertà agli attori, si rivela perfettamente confacente al testo di Chen. I temi, trattati con leggerezza, ironia e grande rispetto, emergono lentamente. Pretendono un ascolto attivo e compartecipato, utile a grattare la superficie con gentilezza e riguardo, senza fretta di svelarne l’intero prezioso contenuto.
Due ore di spettacolo che racchiudono un tempo interiore universale, condensato in scene cadenzate, misurate meticolosamente e armonizzate sulla capacità di ciascun interprete. I dieci minuti di applausi finali dello spettacolo restituiscono la compartecipazione alla “frequenza” di cui si era fatta menzione fin dalle prime battute.