«Papà, ma tu sai chi sono?». «Come se fosse così
interessante». Arno Geiger è alle prese
con un padre, August, che fatica a riconoscerlo.
Ne parla in Il vecchio re nel suo esilio, il libro in
cui lo scrittore austriaco ha descritto gli anni della sua
vita trascorsi accanto a un padre in lotta con la malattia
di Alzheimer.
Una storia non diversa da quella di
molti altri eppure unica, come sempre unico è il rapporto
fra la malattia e la persona, la sua storia e la sua
personalità. Una malattia che sorprende, ma più spesso
spaventa. Come tutte le cose, vista da vicino è forse
meno terribile che costruirne un fantasma indefinito.
Come si evolvono i sintomi cognitivi
«La malattia tesseva la propria rete intorno a lui,
lentamente, senza dare nell’occhio. Nostro padre vi
era già imprigionato, e noi non ce ne accorgevamo»,
dice ancora Arno Geiger nel suo libro. L’esordio vero
è spesso subdolo, ma a un certo punto vi è un
evento della vita che improvvisamente richiede un
impegno psichico maggiore e rivela che vi è un deterioramento
cognitivo. Un lutto, ma anche un furto o
solamente il cambio di casa, generano difficoltà sia
emotive sia cognitive del tutto sproporzionate.
Del quadro clinico della malattia di Alzheimer
fanno parte sia il deficit cognitivo sia disturbi non
cognitivi, con una progressiva perdita di autonomia
nella vita quotidiana.
1 ) Sintomi cognitivi: la perdita di memoria è un
sintomo precoce e diffuso nei malati di Alzheimer.
È soprattutto la capacità di ricordare i fatti e gli avvenimenti
recenti che viene persa, la cosiddetta memoria
episodica: “che cosa ho mangiato stamane”
(o anche se ho mangiato o no, per cui alle volte si ha una bulimia da non ricordo), “chi
ho incontrato un’ora fa”, ma anche la
lista delle cose da comperare, oppure
recarsi in un posto e non ricordare
per fare che cosa, cioè si perde la memoria
che ci accompagna fra il presente
e l’immediato futuro delle cose
da fare.
Alle volte la memoria immediata,
per esempio leggere un numero
e scriverlo o comporlo sul telefono,
può essere meno colpita all’inizio
della malattia, ma poi risulta compromessa
anche questa. Ma accanto ai disturbi
mnesici, abbastanza presto si
hanno dei disturbi
cosiddetti esecutivi,
cioè la capacità
di concepire,
programmare
e poi eseguire
in modo efficace
delle azioni
finalizzate,
specie se complesse.
Questo è
un disturbo diverso
dalla incapacità
prassica,
che pure può esserci: per esempio,
una persona aprassica non riesce ad
allacciarsi un bottone, mentre se ha
un disturbo disesecutivo non riesce a
vestirsi in modo appropriato e mette,
per esempio, la camicia sopra al maglione.
L’associazione di questi disturbi
porta a difficoltà di espressione e di
linguaggio, per cui nel malato si perde
dapprima la capacità di denominare
i singoli oggetti con un singolo nome
( mostrando una matita e chiedendo
che cosa sia: « ... si, serve per disegnare
», ma il termine “matita” non
viene; si parla di “afasia dei nomi”).
Poi si impoverisce sempre di più e
si tende a rispondere usando singole
parole («... Ieri sei caduto? Ti sei fatto
male da qualche parte?», «Ginocchio
»), fino alla afasia, cioè perdita
completa del linguaggio. La perdita
dell’orientamento spazio temporale, accompagna già le prime fasi della
malattia. Di solito viene perso prima
l’orientamento nel tempo e poi
quello nello spazio.
Il malato non
sa più che ora è, che giorno, che stagione
fino a perdere, nelle fasi severe,
anche la percezione della differenza
fra giorno e notte, con le conseguenze
immaginabili sul ritmo
sonno veglia.
La perdita di orientamento
spaziale è spesso il segnale di
allarme che viene percepito per primo
dai familiari: per esempio, la difficoltà
a tornare a casa dopo essere
usciti dalla Messa
o dal negozio;
mentre,
spesso, episodi
di confusione
sui giorni e le
date, già verificatisi,
non sono
percepiti come
deficit tali
da mettere in
allarme chi vive
vicino al paziente.
2) L’autonomia nella vita quotidiana
è un altro importante aspetto colpito
dalla malattia di Alzheimer. Si
riducono per prime le funzioni più
complesse della vita quotidiana,
quindi le attività “strumentali” prima
di quelle “di base”. Cioè si perde
prima la capacità di cucinare che
non quella di alimentarsi da soli;
quella di utilizzare il telefono prima
della perdita della parola.
E così avviene per l’assunzione appropriata
dei farmaci, per l’uso del
denaro come per l’uso dell’automobile.
Soprattutto quest’ultima abilità
è critica: molte persone mantengono
la capacità fisica di compiere
perfettamente le operazioni di guida,
come mettere in moto, girare il
volante, cambiare marcia, quando
già non sanno più riconoscere i cartelli
stradali, compiere una rotonda per il verso giusto o dare la precedenza
a destra.
Naturalmente, anche il pensiero
astratto, la capacità di giudizio e di soluzione
dei problemi viene meno:
non si riesce a far di conto e non si capiscono
più allusioni o metafore.
3) Sintomi non cognitivi: fanno parte
del quadro della malattia anche disturbi
psico-sensoriali e comportamentali.
Uno stato depressivo iniziale,
una minore inibizione delle emozioni,
per cui vi è una sproporzionata
irritabilità, sospettosità e, in generale,
i conoscenti dicono che la persona
«ha cambiato carattere». Alle volte
questo si accompagna alla perdita di
ogni iniziativa, una progressiva indifferenza
all’ambiente e agli avvenimenti
(chiamata “apatia”), ma più spesso porta a comportamenti molto disturbanti
con idee deliranti (per esempio
di furto: «La badante mi ha rubato la
dentiera», «Mi portano via tutto», o di
gelosia: «Esci per incontrare quella
là...») o a iniziative incongrue.
Non riconoscendo più l’ambito domestico,
ma anche per spinte compulsive,
si tende a voler uscire di casa, oppure
si pensa di essere vestiti con gli abiti
di un altro e ci si sveste continuamente
(ma attenzione questo può succedere
anche perché il malato sente caldo!).
Non mancano le allucinazioni, i
malati possono vedere persone, animali
o cose che non ci sono; alle volte sono
visioni piacevoli (per esempio vedere
il proprio cagnolino), alle volte angoscianti
o paurose (per esempio persone
che li minacciano di morte): ovvio
che il comportamento terapeutico
nei due casi è molto diverso.
Questi disturbi
possono essere favoriti anche dalle
dispercezioni sensoriali. La vista, in
particolare, mostra al malato di Alzheimer
un mondo meno nitido, con gli oggetti
che non si staccano bene dallo
sfondo (perdita della sensibilità ai contrasti)
e con il calo della luce nella seconda
parte della giornata vi può essere
un aumento dei disturbi comportamentali,
come l’agitazione e le allucinazioni
(cosiddetta “sindrome del tramonto”)
ma anche falsi riconoscimenti.
Si mantiene invece a lungo, anche
quando non si riconoscono più amici e
parenti, la capacità di riconoscere le
emozioni, specialmente quelle positive,
nei volti delle persone.
Altri sintomi sono presenti e importanti
da valutare. Uno di questi è la mancata
consapevolezza del proprio deficit e della
malattia (anosognosia), che non ha
un rapporto diretto con la gravità della
malattia. Vi sono malati di Alzheimer in
fase lieve che non hanno alcuna coscienza
del deficitmaanche persone in fase severa
che non sono più in grado di badare
a sé stessi ma hanno conservato la coscienza
del loro deficit e ne soffrono.
La storia medica dell'Alzheimer
La malattia di Alzheimer è una malattia
che cambia da persona a persona,
ma che cambia anche continuamente
nel corso della sua non breve
durata, in media quasi 10 anni. Per seguire
questa lunga storia sono stati
elaborati dei sistemi che aiutano a individuare,
dal punto di vista valutativo
e prognostico, la fase clinica della malattia.
Uno dei più usati, la “Scala del
deterioramento globale o Gds (Global
deterioration scale)”, prevede sette
“scalini” di gravità clinica che ripercorrono
a ritroso le fasi dell’apprendimento
operazionale dalla nascita
all’età adulta.
Suggestivamente, tale
scala traccia una sorta di involuzione
circolare nella vita della persona, per
cui il soggetto affetto regredisce nelle
sue acquisizioni fino a tornare dipendente
come nella sua tenera infanzia:
per esempio, la classificazione Gds 5
equivale alle capacità cognitive di un
bimbo di 7-5 anni.
La perdita funzionale accompagna
quella cognitiva e la persona è sempre
meno autosufficiente e richiede
sempre più assistenza e sorveglianza. I
disturbi del comportamento si aggravano
e, specie dalla fase 4 della Gds,
diventano prevalenti e causa principale
di stress per chi assiste il paziente.
Da questa fase in poi può rendersi necessario
il ricovero in un Nucleo Alzheimer
o in altra struttura assistenziale.
Nelle fasi avanzate iniziano le
complicanze neurologiche, costituite
dalla comparsa di un parkinsonismo,
con difficoltà di equilibrio, cadute frequenti
e progressiva compromissione
del cammino.
Possono verificarsi fasi
di dimagrimento inspiegabili, anche
prima che compaiano disturbi della
deglutizione o aprassia della masticazione.
Di solito, a questo punto, i rapporti
con l’ambiente sono ridotti al
minimo e anche la coscienza dei propri
bisogni e del proprio stato è del
tutto assente, per cui anche interventi
apparentemente di aiuto, come l’alimentazione
artificiale, ottengono risultati
di maggior disagio per il paziente
senza aumentarne per altro in
modo significativo la sopravvivenza.
Occorre notare che in questo contesto
apparentemente devastante le vicende
del paziente e dei familiari
non assumono inevitabilmente un andamento
tragico e disperante. Infatti,
spesso, la malattia esordisce dopo gli
ottant’anni e, quindi, finisce per fondersi
con il termine naturale della vita,
rendendosi emotivamente più accettabile.
Inoltre, molti malati di Alzheimer
mantengono, anche nelle fasi
più avanzate, un guizzo umano nello
sguardo e una serenità che stupisce.
Il malato di Alzheimer è come un
pianista costretto a suonare un pianoforte
sempre più scordato; può reagire
con rabbia, deprimersi, ma frequentemente,
specie se anziano, finisce
per accettare la propria condizione,
abbandonandosi alle cure e all’affetto
dei propri cari. Esiste poi la possibilità
di interventi terapeutici che
possono dare notevole sollievo, sia
utilizzando farmaci, sia avvalendosi di
strategie comportamentali che, agendo
sul paziente e sul suo contesto
umano e ambientale, consentono il
mantenimento di una condizione di
vita relativamente serena.
L'origine del nome
La malattia di Alzheimer porta il nome
di un famoso neuropatologo tedesco,
Alois Alzheimer, che nel 1906 aveva
studiato anche dal punto di vista
neuropatologico con altri due patologi,
Perusini e Bonfiglio, il cervello di
una malata di demenza trovandolo
povero di cellule, più piccolo, cioè
atrofico, e caratterizzato dalla presenza
al microscopio di placche fra le cellule
e di grovigli neuro fibrillari dentro
i neuroni: queste lesioni, individuate
allora, sono ancora oggi considerate
le principali caratteristiche
neuropatologiche della malattia di Alzheimer.
In realtà negli anni successivi
non vi fu molto interesse ad approfondire
questa segnalazione e fino
agli anni ’70, venne a lungo tenuta separata
la “demenza di Alzheimer”, come
malattia pre-senile, e la “demenza
senile” fortemente legata all’invecchiamento,
nonostante che il substrato
neurobiologico fosse lo stesso.
Ci sono voluti due passi successivi
per arrivare all’attuale definizione di
malattia di Alzheimer, correlando il
substrato neuropatologico al quadro
clinico, a prescindere dall’età: 1) dalla
fine degli anni ’60, una serie di ricerche
molto note e citate dei ricercatori
britannici Roth, Blessed e Tomlison,
stabilirono gli schemi e le scale
di valutazione sia per quantificare la
gravità del deterioramento cognitivo
sia per calcolare la gravità delle lesioni
cerebrali, cercando anche di dimostrare
una correlazione fra loro; 2)
nel 1976, con la pubblicazione di un
editoriale di Katzman su Archives of
Neurology si chiedeva di non usare il
termine “demenza senile” perché sia
dal punto di vista neuropatologico sia
del quadro clinico essa era indistinguibile
dalla malattia di Alzheimer.
Questo editoriale cambiò le cose e
portò a una revisione numerica impressionante
della prevalenza e
dell’incidenza della malattia di Alzheimer,
che diveniva la demenza più
frequente e un’importante causa di
morte per gli anziani. Nonostante tutta
questa lunga storia, la causa della
malattia di Alzheimer, come di altre
demenze, rimane ignota, anche se ci
sono ipotesi patogenetiche fondate.
La demenza di Alzheimer è determinata
dal fatto che i neuroni, in certe
parti del cervello, prima diminuiscono
l’efficienza e il numero delle
“sinapsi” (cioè i “contatti” fra cellula
e cellula), e poi degenerano e muoiono.
Il cervello dei malati di Alzheimer
in fase avanzata è caratterizzato da circonvoluzioni cerebrali ristrette,
solchi e ventricoli ampliati; il peso
del cervello nelle fasi più avanzate,
può essere ridotto del 20 per cento.
L’atrofia coinvolge i lobi temporali,
parietali e frontali, e in modo marcato
l’ippocampo, la cui atrofia progressiva
valutata al “neuroimaging” è
ritenuta un marker biologico. Si tratta
di zone dove agisce un neurotrasmettitore,
l’Acetilcolina, che risulta quindi
deficitario nel cervello di questi
malati. Ciò costituisce la base per
l’utilizzo dei farmaci ad azione colinergica
che possono avere una certa
efficacia sui sintomi nelle prime fasi
della malattia.
Tuttavia, tali farmaci
non fermano i processi neurodegenerativi
che tendono a coinvolgere
progressivamente anche altri sistemi
neurotrasmettitorali. Da ciò deriva la
sostanziale inefficacia dei farmaci ad
azione colinergica nelle fasi avanzate
della malattia.
Oggi l’ipotesi più fondata è che il
danno sia prodotto dai peptidi solubili
dalla Beta amiloide e non da
quelli accumulati nelle placche, che
anzi potrebbero essere un modo con
cui il cervello si difende da questa sostanza.
Un altro segnale caratteristico
presente nel cervello dei malati
di Alzheimer è costituito dai cosiddetti
“grovigli neurofibrillari” (Nft
– Neuro fibrillary tangles), che si formano
all’interno delle cellule. Secondo
la teoria “amiloidocentrica”,
sono proprio i peptidi della betaamiloide
che determinano l’iper-fosforilazione
della “tau“ con malfunzionamento
della cellula nervosa e
deposizione di grovigli neuro-fibrillari.
Questi grovigli si trovano in
quantità anche in altre demenze, soprattutto
in quelle che colpiscono la
zona frontotemporale.
Nella demenza vascolare la causa
diretta della morte delle cellule cerebrali
è rappresentata da una o più
ischemie e infarti cerebrali. Oggi, in
realtà, si tende a rivalutare l’azione
dei danni vascolari anche nella demenza
di Alzheimer, per cui in certi
casi la distinzione fra le due forme
di demenza non è facile o addirittura
impossibile (demenze miste), soprattutto
nelle età molto avanzate
dove convivono spesso degenerazione
cellulare e danni vascolari.
Conclusione
Pur avendo descritto un quadro clinico
certamente preoccupante, anche
per la mancanza della conoscenza definitiva
della causa della malattia, non bisogna
concludere che per il malato di
Alzheimer oggi non vi sia “nulla da fare”.
Intanto è necessario proseguire
con l’attività di ricerca, a tutti i livelli,
per aumentare le nostre conoscenze
sulla malattia.
E poi già oggi abbiamo
acquisito conoscenze sufficienti per sapere
che, anche se non abbiamo ancora
una cura, possiamo modificare con
interventi sintomatici farmacologici e
non farmacologici il percorso che porta
alla malattia e il percorso clinico che
accompagna le persone con demenza,
per le quali anzi sappiamo che c’è
“moltissimo da fare”.