(Nel fotomontaggio: Luca Zaia e Matteo Salvini)
Adesso tutti a chiamarlo “doge”. E c’è già chi scherza giocando sul nome definendolo “Zaiaescu”, o Lukashenko”. Lui non gradisce più di tanto, ma lascia dire, con la superiorità di chi sa che tre veneti su quattro lo hanno scelto, da destra fino a sinistra, passando, ovviamente, per il centro, dalle Dolomiti alla laguna, fino al delta del Po, cioè in tutto il “Zaiastan”, come la rete ha ribattezzato il Veneto di oggi.
Una cosa è certa Zaia è il governatore più votato della storia della Repubblica ed è uscito dalle regionali come un vero trionfatore, con un plebiscito di proporzioni inaudite, incassando il 76,1% dei voti, polverizzando il rivale, si fa per dire, Lorenzoni (Pd) a cui ha rifilato un più 60% di consensi, ma anche “stracciando” il suo partito: con la lista che porta solo il suo nome ha ottenuto il triplo dei voti di quella della Lega-Salvini. E giù tutti a scrivere Zaia batte Salvini tre a uno. E a ipotizzarne ambizioni di scalate nazionali che lui ha sempre negato, forse, però, fin troppe volte. Certo la differenza di voti tra la lista personale e la Lega c’era anche nel 2010 e nel 2015 quando si presentava con “Forza Marca”, nel senso del Trevigiano, ma non coi numeri superbulgari di oggi.
Perciò l’appellativo “dogale” vien fin troppo facile nella terra della Serenissima, che lo affibbiò, prima di lui al potentissimo governatore democristiano Carlo Bernini, ma ancora quando la DC dominava in Veneto; lo diede, poi, al socialista veneziano, braccio destro di Craxi, Gianni De Michelis, e infine al predecessore Giancarlo Galan, 15 anni sulla poltrona di Palazzo Balbi, travolto dallo scandalo del Mose (che scoperchiò le tangenti più alte mai raggiunte in Italia, un miliardo di euro in dieci anni, un terremoto che avrebbe fatto fuori un’intera classe dirigente). La disgrazia di Galan avrebbe aperto le porte al suo “dogado”.
Solo cinquantaduenne, ormai sono 22 anni che Zaia è in politica: è stato il presidente di Provincia, quella di Treviso ovviamente, più giovane (nel 1998 aveva solo 30 anni), ma non si può dire che non conosca il mondo del lavoro, dal basso. Ha fatto, in gioventù, il muratore, il cameriere, l’operaio, perfino il pr per discoteche. Conosce la terra, nel senso dell’agricoltura, per essersi diplomato enologo e laureato ad agraria a Udine. Non a caso l’unica incursione nella politica nazionale è stata quella tra il 2008 e il 2010 con la nomina di ministro delle politiche agricole nel Berlusconi quater. Le sua battaglie vinte per il prosecco, prima che assurgesse a “fenomeno bollicine” le ricordano in pochi. Ultima quella dell’anno scorso per il riconoscimento Unesco a “Patrimonio dell’umanità” per le stra-amate colline di Conegliano e Valdobbiadene. Senza parlare poi del recentissimo sì alla candidatura alle Olimpiadi invernali di Cortina, risolutamente voluto e conquistato dal governatore veneto.
Di Zaia, uomo che schiva le polemiche come un’anguilla e che ha alle spalle poche gaffe (quella imbarazzante sui cinesi “mangiatori di topi”, è la più recente) possiamo anche dire che oggi abbia vinto facile-facile di fronte a un centrosinistra in totale crisi d’identità, che non ha mai nemmeno provato a mettersi in gara, tanto era il divario e sgarrupata la squadra allestita dal centro-sinistra veneto. Una partita che già prima del covid era data per vinta, minimo con un secco due a zero, per usare la metafora calciofila, e che il lockdown ha trasformato in sonora goleada. I sondaggi, pre-covid, lo davano almeno al 60%. Già un plebiscito.
Poi è arrivata la pandemia e la gestione del virus. E qui il consenso costruito ben prima, si è consolidato durante la quarantena, quando dalla sede della Protezione Civile di Marghera, ogni giorno, fino ad agosto, s’è messo a presenziare le conferenze stampa, a tv venete unificate, blandendo i giornalisti e bacchettando quando gli sembrava il caso, ma sempre con diplomazia e astuzia. Un impegno non da poco, ma anche una specie di lunghissima campagna elettorale giocata sui buoni risultati della battaglia contro il virus. L’oculata gestione dell’emergenza, garantitagli dai consulenti scientifici veneti di prim’ordine e un sistema sanitario territoriale funzionante, i continui record dei tamponi effettuati a tappeto per intercettare gli asintomatici positivi e il confronto impietoso con i disastri della vicina Lombardia e col malcapitato governatore Fontana, lo hanno accreditato anche agli occhi di chi non lo aveva mai votato di un surplus di credibilità politica. Una credibilità che gli analisti hanno quantificato in almeno altri dieci punti percentuali.
Che farà adesso, il governatore più amato dai veneti, che usa volentieri la parola “popolo”, impara presto i neologismi e i tecnicismi, ama il dialetto che intercala spesso, ma che cita con nonchalance Sallustio, quando gli serve per calmare gli entusiasmi post-elettorali (“Dopo la vittoria viene l’invidia”), e Luigi Einaudi, quando nel lontano 1948 propugnava l’autonomia per “compiere” il Risorgimento e, udite udite, addirittura il comunista Giorgio Napolitano: “L’autonomia è auspicabile perché vera assunzione di responsabilità”? Lancia segnali distensivi sulla leadership del Carroccio, forse troppi anche in questo caso, ma tira dritto per la sua strada, dovesse pure scontrarsi con la Lega “nazionalista” di Salvini e ribadisce: “Avanti con l’autonomia”. Quella dello Zaiastan, ovviamente.