Vistosi tatuaggi, pizzetto e due occhi che non ti mollano mai. Ancora una volta Beppe Fiorello ha fatto un ottimo lavoro nel somigliare al personaggio che interpreta. Possiamo dirlo perché cinque anni fa abbiamo passato un’intera giornata con Gianfranco Franciosi, il testimone di giustizia protagonista del libro Gli orologi del diavolo da cui è stata tratta la fiction in 4 puntate con lo stesso titolo che debutta stasera su Rai 1.
La vita di Giannino, come lo chiamavano tutti, cambia quando due sconosciuti si presentano al suo cantiere per commissionargli un gommone velocissimo, sbattendogli sul tavolo un mucchio di banconote da 500 euro. Franciosi comprende che qualcosa non quadra e si rivolge alla polizia. Scopre così che i due erano un camorrista del clan Di Lauro ed Elias Pinero, uno dei più potenti boss del narcotraffico. Il gommone serve evidentemente a trasportare droga. L’occasione è troppo ghiotta. I poliziotti gli dicono che piazzeranno delle cimici sul gommone, lui dovrà solo fare il viaggio e al resto penseranno loro. Ma qualcosa va storto e Giannino viene arrestato dalla polizia francese e finisce in prigione per quattro mesi. Nel frattempo, la polizia gli propone di diventare un infiltrato a tutti gli effetti e così per quattro anni vive tra Europa e Sudamerica come un vero trafficante. Alla fine, grazie a lui, l’organizzazione viene smantellata, insieme al più imponente sequestro di droga mai effettuato, ben 100 tonnellate.
Ma nel frattempo la sua vita privata è andata in frantumi: per tutti è un delinquente, solo la moglie e i due figli conoscono la verità, ma la pressione è troppo forte e il matrimonio va a rotoli. Ma la parte più dolorosa della sua storia arriva quando entra nel programma di protezione. Come capita a molti testimoni di giustizia, quando non serve più, viene abbandonato dallo Stato che tanto aveva aiutato. Le promesse di garantirgli una nuova vita non sono state rispettate e, come ci ha detto Beppe Fiorello nell’intervista, ancora adesso Franciosi si arrabatta come può, mentre il suo cantiere viene continuamente aperto e chiuso. Nonostante questo, ci ha confermato Fiorello, non si è mai pentito della sua scelta.
Ecco invece cosa ha dichiarato il regista della serie Alessandro Angelini:
«Truman Capote scrive che quando Dio ci regala un talento, quel dono può trasformarsi anche nella nostra condanna.
E’ il caso di Gianfranco Franciosi (Marco Merani nella nostra serie), meccanico dall’incredibile bravura, contemporaneamente al servizio del narcotraffico e dello Stato. Si tratta del primo civile inserito a scopi investigativi in un contesto criminale. Una pagina del nostro paese rigorosamente vera, che vede un eroe per caso incontrare la storia con la S maiuscola e cambiarla per sempre; il primo “infiltrato per interposta persona”.
Ricordo che all’ultima pagina della lettura del romanzo sono giunto con il cuore che batteva forte come dopo una corsa. Merito della bravura di Ruffo che lo ha tessuto come un gioco ad incastri e del coraggio di Gianfranco Franciosi, capace di sfidare mille volte il destino a “testa o croce”, per uscirne vincitore sempre e solo all’ultimo lancio.
Il primo atto, approcciandomi a questo lavoro, è stato quello di profondo rispetto verso la vita di Franciosi e delle persone a lui care. E frequenti sono stati i contatti con lui durante il lavoro di preparazione e riprese, per metterci al riparo da errori ma soprattutto da imprecisioni che lo avrebbero allontanato dalla “sua storia”.
Nel dirigere la serie, la difficoltà maggiore è stata quella di trovare uno stile che tenesse insieme in maniera armonica le differenti anime del progetto, dato che “gli orologi del diavolo” ha nel suo Dna almeno tre diversi generi: impegno civile, crime, sentimentale nel senso più vasto del termine, quello in cui gli affetti rappresentano il solo approdo sicuro in un’esistenza messa a soqquadro dagli eventi.
E’ una serie che vive e respira attraverso lo sguardo del suo protagonista, costretto, per la sua stessa sopravvivenza, ad accaparrarsi con ogni mezzo la fiducia di chi ha di fronte, Stato, famiglia, narcos.
Il tema che sottende la serie è proprio quello della fiducia e procedendo sul doppio binario del credere non credere…fidarsi non fidarsi… ho scelto di adottare uno stile di regia semplice e diretto che, senza rinunciare a valorizzare luoghi e situazioni, ponesse in primo piano, il racconto dell’uomo comune costretto a vivere sul filo del rasoio.
Giuseppe Fiorello ha vestito i panni di Marco Merani con incredibile umanità e il suo sconfinamento nel ruolo di infiltrato che a poco a poco disintegra le certezze della sua vita per svolgere il compito che gli è stato assegnato e dal quale non può più uscire, è reso con grande efficacia. Apparentemente è sempre sicuro di sé ma i suoi gesti, il suo dover mentire per salvarsi la vita -vero leit motiv degli episodi- non mascherano mai la fragilità dell’uomo. In questi due estremi che coesistono, risiede la grandezza dell’interpretazione di Giuseppe.
Pur muovendosi nell’ambito dei generi la serie ha una forte connotazione nei rapporti umani. Inquinati anche questi dal dubbio (chi serve a chi?), racconta legami profondi e imprevedibili agli antipodi tra loro, come possono esserlo l’amicizia che lega il protagonista a Mario, un ispettore di polizia, e quella che in maniera sorprendente nasce con Aurelio, il capo dell’organizzazione criminale, che trova in lui il fratello mai avuto e che spiazza continuamente Marco al punto di confonderlo e dubitare se sia giusto o meno “tradire” la sola persona che si fida ciecamente di lui.
Due sono anche le storie d’amore; una al crepuscolo, destinata a spegnersi sotto la tempesta della nuova vita di Marco, l’altra nascente ma molto lontana dai clichè del nuovo amore che regala una seconda opportunità al protagonista perché permeata da un vissuto che parla di passi sbagliati e scelte difficili. Storie rese vibranti dall’interpretazione di due attrici di talento estremamente generose come Nicole Grimaudo e Claudia Pandolfi, capaci di tratteggiare ritratti autentici di donne in lotta con i propri sentimenti.
Credo che assieme alla storia, il cast sia il grande punto di forza della serie e che l’integrazione tra gli attori italiani e spagnoli sia stata la più bella sorpresa vissuta sul set.
Alvaro Cervantes è un cattivo molto poco convenzionale e camaleontico. Consapevole della sua giovane età, Alvaro non ha proposto un cattivo di seconda mano mutuato da altre opere più o meno riuscite, ma ne ha creato uno inedito, razionale e calcolatore ma imprevedibile.
Fabrizio Ferracane e Marco Leonardi sono due protagonisti di assoluto valore, bravi a rendere concreti i dilemmi morali dei propri personaggi.
Roberto Nobile porta sullo schermo tutta la forza di un padre che ama i propri figli, ma che segnato da una perdita prematura, non trova la forza di dirglielo, convinto che la verità non si nasconda nelle parole ma nei gesti.
Veri e propri personaggi della serie sono le ambientazioni. Il mare, su cui si svolge gran parte della nostra vicenda ma anche le marismas, le paludi dell’Andalucia, che -metafora della nostra storia- coi flussi delle maree nascondono e rivelano, evocando la doppiezza dei personaggi.
“Gli orologi del diavolo” ha il merito di espandere il racconto oltre i limiti geografici e qui il mio ringraziamento più sentito va a Rai Fiction, coproduzione spagnola e Picomedia, per aver creduto ad un progetto così complicato.
Ambientata in tre nazioni e due continenti ha mantenuto le lingue dei luoghi per non rinunciare all’immediatezza e al realismo.
Per certi versi mi sento di affermare che “gli orologi del diavolo”, essendo una serie in larga parte ambientata in mare, proprio come questo, è senza limiti. Per la forza del racconto. Per le incursioni nei vari generi. Per quel girovagare senza fine che porta il suo protagonista dalla Liguria a Roma, dalla Spagna al Venezuela, fino alle dune di Punta Tarifa, il sito più estremo d’Europa, sospeso tra Mediterraneo e Africa e immortalato nell’inquadratura di apertura della serie; cioè dove ha inizio la nostra storia…e allora…buona visione!