Giovanni Franciosi nella sua casa a Bocca di Magra (foto di Matteo Montaldo)
Nel garage, accanto all’auto blindata, c’è un’enorme croce di marmo appoggiata al muro. Gliel’hanno regalata i suoi amici, dopo averlo sentito ripetere tante volte che lui ormai è solo “un morto che cammina”. Non lo hanno fatto perché il pericolo che qualcuno possa ammazzarlo non sia reale. Ma solo per esorcizzarlo, almeno un po’. Gianfranco Franciosi non è un “pentito” che ha scelto di dissociarsi da un clan mafioso. E non è nemmeno un imprenditore che ha denunciato i suoi estorsori. Giannino, come lo chiamano tutti, è stato condannato a morte dei narcos spagnoli solo perché quando lo Stato ha chiesto il suo aiuto, lui ha risposto sì. “Solo che poi, quando ha ottenuto ciò che voleva, mi ha abbandonato”. Pronuncia queste parole nel cantiere di Bocca di Magra, vicino a La Spezia, dove è tornato dopo aver vissuto quattro anni da infiltrato (è l’unico caso di un civile usato in questo ruolo in Europa) e quasi due sottoposto al programma di protezione, da cui ha scelto di uscire “perché io e la mia famiglia eravamo stufi di essere trattati senza un briciolo di umanità”.
La sua storia è diventata un libro, “Gli orologi del diavolo”, scritto con il giornalista di Presadiretta Federico Ruffo, e presto diventerà anche un film. Un film di cui saranno protagoniste le barche. Giannino ce ne mostra una, bellissima: “E’ l’Albatross, quella che ho usato per trasportare decine e decine di chili di cocaina”. Proprio la sua abilità nel costruire e modificare barche stravolge la sua vita un giorno come tanti altri in cui al cantiere si presentano due sconosciuti: uno ha un marcato accento napoletano, l’altro parla spagnolo. Gli commissionano un gommone. Deve essere velocissimo e consegnato entro un mese. Sbattono sul tavolo un mucchio enorme di banconote da 500 euro, dicendogli che se rispetterà i patti sarà solo l’inizio. Poi se ne vanno. Giannino capisce che non è una commessa come le altre e va dalla polizia. Racconta tutto e scopre che il napoletano è un camorrista del clan Di Lauro, mentre lo spagnolo è nientemeno che Elias Pinero, uno dei più potenti boss del narcotraffico. Il gommone servirà evidentemente a trasportare droga. L’occasione è troppo ghiotta. I poliziotti gli dicono che piazzeranno delle cimici sul gommone, lui dovrà solo fare il viaggio e al resto penseranno loro. “Avevo un po’ paura, ma sembrava giusto aiutare la giustizia e poi sapevo che sarei stato sempre controllato”. E invece, mentre è in alto mare con il gommone, si accorge che il rilevatore Gps che segnala la sua posizione non funziona più e così viene arrestato con un trafficante “vero” dalla polizia francese. Prova a spiegare la sua posizione, ma ci vogliono ben quattro mesi passati in cella prima che tutto si chiarisca. “Stavo con due ‘ndranghetisti. Ma mi trattavano bene: per loro ero un narcotrafficante…”, ricorda amaro Franciosi.
A questo punto, la polizia gli propone di diventare un infiltrato a tutti gli effetti: “In cella ero stato zitto e così mi ero conquistato il rispetto del boss”. Che infatti, trascorsi altri tre mesi in prigione per rendere più credibile la copertura, quando Franciosi esce gli propone di diventare un suo corriere in pianta stabile. Ma prima deve superare una prova: uccidere un uomo. Per evitarlo, e al tempo stesso non bruciare il suo lavoro, la polizia organizza una messa in scena. Gli dà una pistola con la matricola abrasa e poi lo fa fermare da una pattuglia. Per Elias è un’ulteriore prova della sua affidabilità. Ma per chi lo conosce, da quel momento Giannino è un delinquente. Il padre non gli rivolge più la parola. Solo la moglie e i due figli conoscono la verità, ma la pressione è troppo forte e il matrimonio va in frantumi. Ma lui va avanti: quattro anni di viaggi in Sudamerica, di feste lussuose con i narcos e di riunioni con la polizia. “Ho provato a tirarmi indietro, a trasferirmi da un’altra parte ma Elias è riuscito sempre a trovarmi. Una volta mi ha mandato una mail: “Se provi a fregarmi, ti taglio la testa””. Ma non è solo la paura a spingerlo a continuare. “Senza accorgermene, sono entrato nel personaggio che recitavo: avevo paura, ma allo stesso tempo quella vita mi piaceva. Per questo non ce la faccio a leggere il libro: non mi riconosco, mi sembra di leggere la storia di un pazzo”. Intanto Giannino conosce un’altra donna. Le racconta tutto e la accoglie in casa con i suoi quattro bambini: “I trafficanti venivano a casa nostra e non sapevano che nei giocattoli la polizia aveva piazzato delle microspie”. Finalmente arriva il giorno della resa dei conti: grazie anche alle sue informazioni, scatta l’operazione Albatross, come la barca di Giannino. In mezzo all’Atlantico tra motoscafi e pescherecci vengono trovati 10 tonnellate di droga: è il più imponente sequestro della storia del narcotraffico. Il boss Elias, però riesce a scampare alla cattura. Ma è solo questione di tempo. Sempre grazie alla sua collaborazione, in una successiva operazione viene arrestato e condannato a 19 anni di carcere. A questo punto, inizia la seconda parte della storia, la più dolorosa. Giannino con la sua famiglia entra nel programma di protezione. Ha una nuova identità e si trasferisce in una località protetta. Ma non può trovarsi un lavoro stabile perché basta un controllo per verificare che il suo codice fiscale non esiste. Dipende quindi dai soldi che ogni mese deve per legge dargli lo Stato. “Quasi sempre arrivavano in ritardo”, ricorda Giannino.
Ma è stata soprattutto la mancanza di sensibilità dei funzionari a esasperarlo. “Era inverno, pioveva sempre e non potevo usare la mia auto per accompagnare i bambini a scuola, perché i narcos la conoscevano benissimo. Ho chiesto quindi se potevano darmene una, ma la risposta è stata: “Si compri un ombrello più grande”. Dopo altri episodi simili, Franciosi decide di uscire dal programma di protezione come hanno fatto prima di lui molti altri testimoni di giustizia che si sono sentiti traditi dallo Stato. “Ho chiesto 437 mila euro per riprendere la mia attività, una somma ridicola se raffrontata a quelle elargite a molti pentiti. Me ne sono stati dati solo 63 mila, perché ho scelto volontariamente di uscire dal programma”. Ma la sorpresa più amara è stata il ritorno al cantiere di Bocca di Magra: “Lo Stato avrebbe dovuto garantire il mio lavoro, invece ho trovato tutto sommerso dal fango. Barche, officina: non avevo più niente. Per questo ho deciso di fare causa allo Stato”. Oltre ai poliziotti che lo hanno seguito fin dall’inizio (“Ogni tanto mi chiamano e scherzano: come va, collega?), solo due persone delle istituzioni sono state vicino a Franciosi: “Il vicequestore di Genova Francesco Navarro e il presidente del Senato Pietro Grasso, che ha seguito da magistrato tutta la mia vicenda. E poi c’è don Luigi Ciotti: la sua voce per me è sempre di grande conforto”. Giannino comunque si è rimboccato le maniche e ha ripreso la sua attività. La forza gliela danno i figli, naturali e acquisiti, che sono orgogliosi di lui. “La più grande va al liceo. Una volta è venuto a parlare un pentito, lamentandosi per le difficoltà della sua nuova vita. Lei è scoppiata a piangere e gli ha urlato: “Sono la figlia di un uomo che non ha mai violato la legge e che rischia ogni giorno la vita per aver aiutato lo Stato. Però voi avete tutto e noi niente”.
La legge stabilisce che debba essere garantita la sua incolumità fino alla cessazione di ogni pericolo e per questo nel suo cantiere sono state messe delle telecamere. Ma un giorno Giannino ha trovato due proiettili sul cancello. Chi li ha messi? “Impossibile saperlo, perché è risultato che le telecamere non sono mai state attivate. Così ho fatto installare un impianto di videosorveglianza a mie spese. E mi sono comprato un’auto blindata. Ma so che non servirà: poche settimane fa ho trovato altri proiettili. I criminali li chiamano “ammazzasbirri” perché sono in grado di bucare anche le auto blindate. Un messaggio chiarissimo”. L’unica vera misura di protezione per Franciosi è rappresentata dagli amici che vivono e lavorano qui vicino. “Mi chiamano subito se notano qualcosa di sospetto. Pochi giorni fa un uomo con un accento napoletano ha chiesto a un amico dove si trovava il mio cantiere. Lui l’ha mandato da un’altra parte. Tanto, se è una brava persona, tornerà”. Prima di salutarci, notiamo che, come ogni vero uomo di mare, Giannino ha molti tatuaggi. Uno in particolare, ci incuriosisce: raffigura i numeri 610 e occupa tutta la parte destra del collo. Giannino spiega con calma: “Me l’hanno fatto loro. E’ un segno di riconoscimento per aver partecipato a un’operazione. La mia vita è legata a loro per sempre”.