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Il rischio di perdere il controllo della digitazione e di spedire un tweet prima di aver attivato i freni inibitori, come se fosse un sms privato a un amico, dimenticando la dimensione pubblica del mezzo, esiste per tutti, nessuno ne va esente. Lo sanno coloro che cinguettano abitualmente e coloro che hanno scelto di non farlo per non correre il pericolo. La Rete, si sa, è anche il luogo della provocazione, dell’emotività subito espressa.
Il problema del “dominio del mezzo”, perché di questo si tratta, diventa serio quando a guidare il messaggino da 140 caratteri è una persona pubblica, peggio, con responsabilità istituzionale: il signor Rossi, come la fan di Fedez, da signor nessuno qual è, può permettersi di postare un commento indifendibile: non sarà elegante, ma rappresenta soltanto il suo autore, che ne ricaverà le conseguenze, se del caso, in termini di insulti, di reazioni, di immagine.
Ma un vicepresidente del Senato non smette di essere tale quando a casa propria impugna un telefonino e twitta dal proprio account. Sarà pur vero che lo fa a titolo personale, ma il ruolo impone che sorvegli con cura quel che dice, non soltanto perché potrebbe essere incompatibile con la disciplina e l’onore che l’articolo 54 della Costituzione prescrive a chi riveste pubbliche funzioni, ma anche perché le parole, destinate a non passare inosservate in relazione alla carica di chi le pubblica, avranno risonanza in proporzione al ruolo.
Il signor Rossi verrà notato, insultato o applaudito dai suoi quattro amici, il vicepresidente del Senato può fare scuola: se risponde per le rime a una ragazzina minorenne con un tono che la offende per il suo aspetto fisico, finisce per sdoganare l’idea che non sia poi così grave ferire a parole qualcuno per qualche chilo di troppo, tanto più a pochi giorni dal caso, noto alle cronache, in cui un ragazzino ha rischiato la vita per una violenza, fisica, scatenata contro il suo aspetto un po’ abbondante.
È vero che ci cascano anche all’estero (vedi governatore dell’Illinois inciampato in un tweet discriminatorio), è vero che negli ultimi anni abbiamo visto la politica, d’ogni colore, sdoganare in termini di linguaggio di tutto, turpiloquio compreso. Può starci – anche se l’immagine delle istituzioni non ne ha guadagnato e preferiremmo che non fosse accaduto – finché l’insulto è da pari a pari, finché si risponde a tono all’avversario politico, ma il vicepresidente del Senato non può mettersi sullo stesso piano di una ragazzina, sia pure incline all’insulto a sua volta, senza offendere con lei anche il proprio ruolo istituzionale, senza mettere a disagio tutti noi perché anche mentre twitta ci rappresenta.
Ps. Il vicepresidente del Senato ha sporto denuncia per minacce di morte a lui e alla sua famiglia a seguito di quel tweet. Dissentire dal contenuto del tweet non ci esime dal dire forte e chiaro che le minacce di morte non sono una replica che abbia diritto di cittadinanza in un Paese civile.
Il problema del “dominio del mezzo”, perché di questo si tratta, diventa serio quando a guidare il messaggino da 140 caratteri è una persona pubblica, peggio, con responsabilità istituzionale: il signor Rossi, come la fan di Fedez, da signor nessuno qual è, può permettersi di postare un commento indifendibile: non sarà elegante, ma rappresenta soltanto il suo autore, che ne ricaverà le conseguenze, se del caso, in termini di insulti, di reazioni, di immagine.
Ma un vicepresidente del Senato non smette di essere tale quando a casa propria impugna un telefonino e twitta dal proprio account. Sarà pur vero che lo fa a titolo personale, ma il ruolo impone che sorvegli con cura quel che dice, non soltanto perché potrebbe essere incompatibile con la disciplina e l’onore che l’articolo 54 della Costituzione prescrive a chi riveste pubbliche funzioni, ma anche perché le parole, destinate a non passare inosservate in relazione alla carica di chi le pubblica, avranno risonanza in proporzione al ruolo.
Il signor Rossi verrà notato, insultato o applaudito dai suoi quattro amici, il vicepresidente del Senato può fare scuola: se risponde per le rime a una ragazzina minorenne con un tono che la offende per il suo aspetto fisico, finisce per sdoganare l’idea che non sia poi così grave ferire a parole qualcuno per qualche chilo di troppo, tanto più a pochi giorni dal caso, noto alle cronache, in cui un ragazzino ha rischiato la vita per una violenza, fisica, scatenata contro il suo aspetto un po’ abbondante.
È vero che ci cascano anche all’estero (vedi governatore dell’Illinois inciampato in un tweet discriminatorio), è vero che negli ultimi anni abbiamo visto la politica, d’ogni colore, sdoganare in termini di linguaggio di tutto, turpiloquio compreso. Può starci – anche se l’immagine delle istituzioni non ne ha guadagnato e preferiremmo che non fosse accaduto – finché l’insulto è da pari a pari, finché si risponde a tono all’avversario politico, ma il vicepresidente del Senato non può mettersi sullo stesso piano di una ragazzina, sia pure incline all’insulto a sua volta, senza offendere con lei anche il proprio ruolo istituzionale, senza mettere a disagio tutti noi perché anche mentre twitta ci rappresenta.
Ps. Il vicepresidente del Senato ha sporto denuncia per minacce di morte a lui e alla sua famiglia a seguito di quel tweet. Dissentire dal contenuto del tweet non ci esime dal dire forte e chiaro che le minacce di morte non sono una replica che abbia diritto di cittadinanza in un Paese civile.





