Sopra: una scena del film. In alto: un momento delle riprese, con il regista Daniele Luchetti sulla scena.
E’ il primo film su un Papa che sia mai stato girato nel corso del suo Pontificato. Chiamatemi Francesco, diretto da Daniele Luchetti e scritto dallo stesso regista con la preziosa collaborazione dell’argentino Martin Solinas, esce oggi nei cinema di tutta Italia in oltre 700 copie.
Una pellicola unica nel suo genere: 15 settimane di riprese tra Argentina, Germania e Italia; oltre 15 milioni di euro di badget (messi dalla TaoDue di Pietro Valsecchi e dalla Medusa); un’imponente massa di ricerche storiche e religiose; centinaia di interviste a testimoni e persone comuni che hanno conosciuto Bergoglio prima che diventasse Papa; almeno 3000 comparse per girare le scene nei barrios argentini. Ma non sono soltanto i numeri a fare di Chiamatemi Francesco il caso cinematografico di questo scorcio di fine d’anno (basti pensare che il film è stato già venduto in 40 paesi).
A rendere speciale la pellicola sono l’onestà e la passione con cui viene disegnata la figura di Jorge Mario Bergoglio negli anni giovanili di formazione e poi nel duro confronto quotidiano con la feroce dittatura del generale Videla.
“Il film è nato da un’idea di Pietro Valsecchi. Quando me l’ha proposta confesso di essermi sentito spiazzato”, racconta Luchetti. “Siamo partiti, io e lui, per Buenos Aires dove abbiamo incontrato e intervistato tantissime persone che avevano conosciuto Bergoglio: alcune benissimo, altre magari solo quando erano bambini. E non è mancato chi, nella penombra di un lampione, mi ha sussurrato di fare attenzione perché anche lui sarebbe stato compromesso con la dittatura argentina. Un bailamme di informazioni in cui faticavo a orizzontarmi, non riuscivo a trovare il filo di un racconto. Poi c’è stata una frase che mi ha colpito: Jorge è stato un uomo ‘preoccupato’ per tutta la vita. Ecco la chiave! Capire la maturazione, esplorando il suo passato per comprendere come sia potuto arrivare a essere ciò che è oggi”.
Impresa mai facile al cinema quando il personaggio su cui si punta la cinepresa non è ancora storia ma è vivo e vegeto. Figurarsi, poi, quando si tratta di una figura emblematica come il Pontefice. Di più, il primo Papa latino-americano negli oltre duemila anni della Chiesa.
“La mia preoccupazione è stata quella di evitare l’agiografia, di non fare cioè quel santino in cui si dà continuamente di gomito allo spettatore dicendogli: lo vedi, si capiva subito chi sarebbe diventato”.
Missione compiuta. L’avventura umana, oltre che spirituale, di Bergoglio è talmente infatti ricca e complessa da mantenere alta la tensione di chi guarda senza bisogno di ricorrere ad alcun artificio.
“La storia di quest’uomo non è fatta soltanto di fede incrollabile e convinzioni profonde, è anche una testimonianza toccante della tragica storia recente dell’Argentina”, sottolinea il regista. “Io ho cercato di raccontare l’intreccio tra queste storie in modo partecipe, evitando lo sguardo da turista. Rispettando anzi l’identità dell’uomo e di un Paese”.
Da colui che porta la borsa a quello che porta la croce, di ferro.
Curioso il percorso cinematografico di Daniele Luchetti, 55 anni, romano, cresciuto all’ombra di Nanni Moretti che si fece per lui attore ne Il portaborse, film che nel 1991 anticipò la stagione di “mani pulite”. Da allora, Luchetti ha sfornato film mai banali sui malesseri della società, con sguardo critico stemperato dall’agrodolce della commedia: La scuola, con Silvio Orlando spaesato professore; Mio fratello è figlio unico, con Elio Germano e Riccardo Scamarcio a incarnare estremismi ideologici degli anni di piombo; La nostra vita, con Germano premiato a Cannes nel ruolo di un poveraccio irretito dai soldi.
Luchetti non è schiavo della cinepresa, filma soltanto se ha qualcosa da dire. Come è nato allora Chiamatemi Francesco, intensa biografia di Jorge Mario Bergoglio fino all’avvento al Soglio Pontificio, il 13 marzo 2013?
“Per quanto mi riguarda, tutto è cominciato con una suggestione. Profonda”, confessa Luchetti. “Quest’uomo mi ha emozionato fin dal primo momento, quando si è affacciato al balcone di San Pietro e ha esordito con un semplice buonasera rivolto alla folla. Mi ha affascinato la personalità carismatica di Bergoglio. Non sapevo molto della sua vita. Con lo sceneggiatore argentino Martin Solinas, ho fatto un enorme lavoro di ricerca: ci siamo basati sui suoi scritti ma abbiamo anche parlato con amici e nemici storici. Andando a fondo ho scoperto una traiettoria esistenziale tormentata ma limpida, chiara, che spiega bene come mai Bergoglio abbia toccato livelli di comunicazione così alti”.
Il film (che tra un anno e mezzo verrà trasmesso da Canale 5 in versione più lunga: quattro puntate da 50 minuti) si apre alla vigilia del Conclave. L’anziano cardinale Bergoglio si chiede cosa ci stia a fare a Roma. E perché, alla vigilia di un appuntamento così importante, non abbia pensieri elevati ma si perda mentalmente dietro un motivetto. La chitarra suona e risveglia antichi ricordi. Che si materializzano per lo spettatore. Nei panni del giovane che diverrà Papa Francesco c’è l’attore argentino Rodrigo della Serna (curioso: ha interpretato anche il giovane Che Guevara ne I diari della motocicletta).
Mentre il volto di Bergoglio maturo, segnato dalle esperienze, è invece quello dell’attore cileno Sergio Hernandez. Entrambi bravissimi, mai sopra le righe.
“Il ricordo parte da quando Jorge, giovane maestro, è ancora incerto sulla sua strada. E’ fidanzato ma poi ecco la vocazione. La parte centrale”, spiega il regista, “abbraccia il periodo della dittatura di Videla in Argentina. A soli 37 anni, Bergoglio è nominato Provinciale dei gesuiti in Sudamerica, carica che gli dà il potere di parlare con i politici. Neutralità? Impossibile. Bergoglio sceglie. Tante le persone salvate, ma tanti anche gli amici uccisi o fatti sparire dalla dittatura”.
Insomma, più di una nuda biografia.
“Chiamatemi Francesco è il racconto della vita di un uomo straordinario”, sottolinea Luchetti. “E di una Chiesa latinoamericana molto impegnata e progressista. Quando ho cominciato le riprese non potevo certo definirmi un credente, adesso invece credo molto nella gente che crede… In Sudamerica ho scoperto una Chiesa straordinaria. Sono rimasto letteralmente sedotto dalle persone che ho visto farsi Chiesa per le strade, tra la gente”.