«Com’è nata la sua vocazione? Come ha fatto ad avere un rapporto così forte con i suoi familiari? Com’è riuscito a creare la classe dirigente? Come ha intuito le tante fragilità dell’uomo? Come ha vissuto gli anni a Milano con l’idea fantastica della missione popolare? Cosa ha provato nella solitudine dell’ultima parte del pontificato?». Sono tante le domande inevase che risuonano nella testa di Chiara Montini. Se potesse, le rivolgerebbe allo zio Papa. «La canonizzazione», confida, «mi aiuta a rendermi conto del privilegio che gratuitamente ho ricevuto. Quando celebrava la Messa nella cappella si trasfigurava. Da bambina ero convinta che fosse Gesù. Già allora emergeva la sua santità, cioè la sua capacità di rendere santo ogni momento». Lei e sua sorella Elisabetta hanno avuto la fortuna di frequentare i giardini vaticani: «Era una pacchia. Ci veniva servito il tè freddo… Giravamo nei labirinti di siepi di bosso e assistevamo alla produzione di formaggio nella fattoria con gli animali». L’atteggiamento era di deferenza: «Non lo chiamavamo più zio. Ci rendevamo conto di averlo perso come zio. Nel momento in cui ha preso il nome di Paolo, è diventato Padre dell’umanità».
UNA PARENTELA NON FACILE
E pensare che per molto tempo, soprattutto durante la contestazione, Chiara è arrivata quasi a negare le radici familiari, perché il cognome era un fardello troppo pesante da sopportare. «Non vivevi più se non per la gioia di giornalisti e fotografi. Sui periodici mi ritrovavo immortalata mentre percorrevo il tratto da casa al liceo. Io e mia sorella eravamo le nipoti più giovani ed eravamo prese di mira. C’era un interesse anche di tipo scandalistico. Ci furono più oneri che onori. Chiamarsi Montini significava essere criticati soprattutto per la sua fermezza. C’è sempre stato un atteggiamento ostile che mi ha ferito. All’Università Cattolica smentivo, nonostante la somiglianza, ogni legame di parentela, un po’ per lo stile assunto dalla nostra famiglia, un po’ perché non avevo ancora le spalle larghe per rispondere alle accuse. Non è stato facile. Per questo retaggio ho impiegato un po’ a dire ai miei figli che in casa avevamo avuto un Papa».
Anche nelle decisioni più difficili Montini teneva in grande considerazione i fratelli. «Poco prima dell’enciclica Humanae vitae mi ricordo le telefonate dello zio con mio papà. Sicuramente, visto che era medico, si sono confrontati sul tema. Sono convinta che la santità di Paolo VI derivi anche dagli esempi familiari».
L’AFFETTO E LA SOLITUDINE
Le cronache del tempo raccontano dell’affetto dei fedeli quando, il 6 gennaio del 1964, di ritorno dalla Terra santa, migliaia di persone riempirono le strade per salutare il Papa, ma anche la sofferenza e l’isolamento dell’ultima fase della sua vita. «Probabilmente non è stato capito. Certi messaggi e discorsi sono ancora molto attuali». A chi sostiene che Paolo VI non aveva carisma, Chiara risponde che «il carisma non è solo quello di calamitare le persone; è anche quello di far capire all’altro che è importante. E in questo Paolo VI era un maestro». Chiara, figlia di Francesco, è nata nel 1954 proprio quando lo zio venne nominato arcivescovo di Milano.
«Da bambina fu tutto più semplice e divertente: un giorno in arcivescovado ci diede in regalo una pecora». Da lui ricevette i sacramenti, ma soprattutto tanto calore. «Ricordo una presenza affettuosa e il grande amore, anche nel silenzio, tra i tre fratelli (Lodovico, don Battista e mio papà Francesco). Le sensazioni più belle sono quelle del periodo delle vacanze». Siamo alla fine degli anni ’50. Il cardinale Montini, accompagnato dai segretari e da padre Giulio Bevilacqua, era solito trascorrere alcuni giorni di riposo in Svizzera, nei monasteri di Einsiedeln e di Engelberg, con la famiglia di Francesco. «Era molto attratto dal carisma benedettino», continua Chiara.«L’ora et labora rappresentava il suo stile di vita. Al mattino lo zio intratteneva me e mia sorella Elisabetta con la costruzione dei castelli di carta che, immancabilmente, Bevilacqua faceva cadere». Purtroppo è stato etichettato come un uomo distaccato.
«Desidero sfatare il mito di una persona fredda, amletica e quasi insensibile; era, invece, vicino e partecipe. Quando nel 1971 morì mio padre, volle quasi sostituirsi a lui, pur con i mille impegni del pontificato. Nelle telefonate serali si informava sul nostro percorso scolastico, sulle amicizie e sui nostri interessi. E lo stesso succedeva quando, in occasione delle feste mariane, andavamo a Castel Gandolfo». Tra le caratteristiche da riscoprire di Paolo VI, la nipote ne individua due: «L’umiltà e la sensibilità nei confronti del prossimo. Ci ha insegnato che bisogna accettare l’altro per quello che è, solo conoscendo si può accogliere. E questo lo dovremmo sperimentare anche oggi».