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Si fa presto a dire «Restate a casa!»

07/05/2020  L’invito a non uscire di casa deve farci pensare alle tante situazioni di sofferenza e disperazione. La riflessione del teologo Gaetano Piccolo

Nel pieno dell’epidemia di Covid-19, verso la fine del mese di marzo, le due badanti che si alternavano per assistere mia mamma, anziana, sola e non autosufficiente, mi hanno comunicato che non avrebbero più potuto continuare a occuparsi di lei, una per il timore di uscire da casa, l’altra perché, avendo i figli piccoli che non andavano più a scuola, non riusciva a gestire famiglia e lavoro insieme. A quel punto, ho realizzato che non c’erano molte alternative: ho lasciato la mia comunità e mi sono trasferito da mia mamma. È stata anche l’occasione per cominciare a riflettere da un altro punto di vista sulle conseguenze di questo slogan che forse ripetiamo con troppa semplicità: #restateacasa. Innanzitutto perché una casa bisogna averla, e già questo non è  scontato. Non tutti poi hanno una casa luminosa e attrezzata come quella delle famiglie sorridenti che abbiamo visto con tanta frequenza nelle rassicuranti pubblicità di questo periodo. Molta gente vive in appartamenti di poche stanze. Molti anziani vivono da soli. Molte famiglie, soprattutto al Sud, sono abituate a percepire la strada come un prolungamento della propria abitazione. Forse si fa troppo presto a dire ai genitori di non preoccuparsi se i figli non andranno più a scuola, tanto le lezioni arriveranno in video sul cellulare. Non tutte le famiglie infatti hanno dispositivi adeguati. E anche qualora la scuola dotasse i ragazzi di computer, come è avvenuto in qualche raro caso, non tutte le famiglie si possono permettere di pagare una connessione internet tale da consentire un utilizzo di giga necessari per quotidiane connessioni di diverse ore. Mi sono accorto poi che ci sono anche le famiglie che hanno in casa persone malate, persone che necessitano di controlli medici che sono stati rimandati. Ci sono famiglie con bambini autistici e più in generale genitori che hanno figli disabili, ragazzi di solito aiutati dai centri diurni di riabilitazione, ora costretti a rimanere chiusi. E ci sono poi donne costrette da questa epidemia a rimanere paradossalmente in casa con il loro carnefice. Quell’invito ripetuto a stare a casa è diventato per me sempre più un invito a pensare a tante situazioni di sofferenza, malattia, diffcoltà e disperazione che spesso si consumano tra le mura delle nostre case.

Inviate le vostre domande a lettori.credere@stpauls.it

 
 
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