La processione dei Dolori di Maria Santissima addolorata, una processione che si svolge a Nocera Terinese, in provincia di Catanzaro (foto Ansa)
Tra dicembre e febbraio al santuario della Madonna di Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, è difficile incontrare anima viva. Il freddo e la neve ad altezze che raggiungono quasi 2 mila metri non sono condizioni favorevoli. Eppure a Polsi, uno dei più popolari santuari del Sud Italia, quando dal 30 agosto al 2 settembre si celebra la festa della Madonna della montagna, arrivano migliaia di persone in pellegrinaggio dal Reggino ma anche dalla Sicilia.
Si inerpicano per una strada semisterrata, lungo un costone di roccia su voragini e precipizi, a piedi per cinque ore o in auto per più di un’ora da San Luca, il Comune più vicino, sullo Jonio, commissariato dal 2013, luogo di origine delle famiglie di ’ndrangheta tra le più potenti e feroci della Calabria (gli autori e le vittime della strage di Duisburg, per dare l’idea). Si sistemano intorno al santuario e al monastero basiliano del 1100, incastonato dentro una gola tra montagne e natura da vertigine, con tende di fortuna o nelle automobili che per qualche notte diventano letti, tra coperte e sacchi a pelo.
Arrivano a gruppi, sbandierando i simboli delle confraternite, in maggioranza giovani e maschi con le facce triangolari e lo sguardo denso del Sud. E la gentilezza timida di chi è poco abituato a comunicare con il forestiero. I devoti alla Madonna si spingono fin quassù per la festa più importante dell’anno, come hanno fatto i loro antenati per secoli. Tre giorni di balli e tamburelli, di zampogne e carni alla brace, di birra consumata senza risparmi, di gioco alla morra e di preghiere, una vera festa antica, sacra e popolare.
Per decenni, però, questa è stata anche la sagra dei capi della ’ndrangheta, che a Polsi si sono dati appuntamento per decidere strategie, pianificare omicidi, fare affari, stringere alleanze o dichiarare guerre. Violando non solo le regole del Vangelo ma anche quelle della natura, sintesi quassù della perfezione del Creato. Polsi è sinonimo di bellezza contaminata e di vergogna per i tanti fedeli autentici, consapevoli che il crimine ha avvelenato la Calabria. «Paghiamo tutti la colpa di pochi», è il commento più frequente tra chi prega, pellegrini dagli occhi stanchi per le notti insonni, madri che lasciano sull’altare il vestito della festa dei bambini o il fazzoletto della confraternita, veri testimoni di fede evangelica e devozione popolare. Anziani, ma soprattutto giovani che guardano al futuro con gli occhi curiosi di chi ama la vita.
Tanti di loro (non tutti, a dire la verità) hanno applaudito la forte omelia del vescovo Francesco Oliva che ha chiesto perdono a Dio per «l’infedeltà e la miseria umana» di cui il santuario è stato teatro, «per quanti hanno cagionato spargimento di sangue, lacrime di dolore e sofferenze di ogni genere! Perdono per i mafiosi che si sono fatti vanto della sacra immagine della Madonna di Polsi! Perdono per una fede popolare troppo superficiale e poco coerente. Perdono per quanti hanno legato la sacra immagine di Maria della montagna ai loro progetti criminali».
Un'immagine dalla tradizionale celebrazione pasquale della Madonna della Montagna a Polsi (foto Ansa)
I vescovi Francesco Oliva e Francesco Milito: la Chiesa contro la 'ndrangheta
Nonostante le parole del vescovo di Locri tra i pellegrini c’è ancora chi non vuole vedere e sentire, quelli per cui a Polsi la ’ndrangheta non c’è e non c’è mai stata, quelli che «sono tutte leggende, storie di briganti e del passato, invenzioni dei giornalisti e delle malelingue», e perciò diffidano dei testimoni, dei processi, delle retate (la più clamorosa nel 1969, quando le forze dell’ordine sorpresero in un bosco qui vicino un centinaio di pezzi grossi delle ’ndrine arrivati da mezza Calabria). Anche le inchieste recenti li lasciano scettici e indifferenti. Nell’ultima, battezzata Fata Morgana e coordinata dalla Procura di Reggio Calabria, tra gli indagati per associazione segreta c’è anche don Pino Strangio, parroco di San Luca e canonico del santuario. Il sacerdote si è dichiarato innocente e continua nelle sue funzioni in attesa che la giustizia faccia i suoi accertamenti.
«Ho chiesto perdono a tutti per quest’orrore. Se qui c’è stata gente di malaffare, ora vogliamo guardare in avanti. Non vogliamo più che questo sia considerato il santuario della ’ndrangheta», dice monsignor Oliva, che dopo l’omelia ci riceve nella sede del rettorato di Polsi. Il luogo è accogliente, l’odore di pulito e la penombra riconciliano con il sacro, ma stridono con la luce abbacinante all’esterno e il disordine, i cumuli di lattine di birra vuote, le tracce di una commistione troppo pervasiva tra sacro e profano. «Questo luogo deve essere restituito alla gente semplice e umile di questa terra che vede nella Madonna di Polsi la propria Madonna», spiega il vescovo, che parla con toni amari e consapevoli della necessità di purificare la fede, di ricostruire il legame con la vita, di restituire coerenza al sentire cristiano. «È un lavoro difficile e dai tempi lunghi», ammette.
Un lavoro inaugurato con l’installazione di un sistema di video-sorveglianza collegato con le forze dell’ordine per controllare nomi e volti, soprattutto di coloro che, in cerca di legittimazione in cielo così come in terra, esibiscono forza e potere parodiando il sacro, portando a spalla la Madonna nella processione, elargendo offerte alle parrocchie. Dal 2017 si effettuerà anche la vigilanza sull’accoglienza: ammissione negli alloggi appartenenti alla Chiesa solo per chi è senza macchia. «Tutto ciò richiede un grande impegno. Ma solo così riusciremo a riappropriarci di questo luogo», dice Oliva, che parla di un’azione della Chiesa che va sempre più integrata sul territorio. Parla di lotta, il vescovo, che va condotta sul piano dell’ordine pubblico, ma anche di impegno per il welfare da parte dello Stato: «Il principio della solidarietà sociale conta più che altrove qui, in questa regione che è la più povera d’Europa».
In Calabria come in Campania, come in Sicilia: processioni deviate, inchini, riti religiosi che diventano preziose occasioni di conferma del potere per la malavita organizzata. Episodi anche rari, in e
ffetti, ma che la cronaca ci restituisce con lunghi strascichi di polemiche. Nel braccio di ferro tra malavita e Chiesa, in passato la malapianta ha spesso vinto. E ora? Quanto ancora il crimine può contare sul silenzio, sulla complice neutralità di uomini di Chiesa che con la loro indi
fferenza fanno ombra a quelli che al contrario vivono il Vangelo, quelli che ci hanno rimesso la pelle, nuovi martiri della Chiesa?
A Oppido Mamertina, nel Reggino, un “inchino” (presunto?) della statua della Madonna delle grazie davanti all’abitazione di un boss ai domiciliari ha scompigliato le carte ed è stato la stura per i progetti che il vescovo Francesco Milito da anni aveva in mente. «Quell’episodio, che ha fatto il giro del mondo», racconta il vescovo, «è stato un kairòs, un intervento particolare di Dio nella nostra storia. Dio si serve di circostanze varie per inviarci messaggi incisivi», per suggerire l’urgenza di cambiamento. Dopo un periodo di sospensione della festa, «di quaresima e di digiuno», è arrivata la svolta: un decalogo, con una serie di norme frutto di riflessione corale, di collaborazione con i parroci, e un forte richiamo all’austerità nei riti. Soprattutto, nessuna sosta davanti alle case dei boss: non è la forza fisica che serve a chi chiede di sorreggere le statue in processione, ma la fede.
Un momento della celebrazione della Madonna della Montagna a Polsi (foto Ansa)
La testimonianza di monsignor Vincenzo Bertolone e il procuratore Nicola Gratteri
Dallo scorso anno nuovo corso anche a Sant’Onofrio, nel Vibonese, dopo le infiltrazioni di soggetti vicini alle cosche durante il rito dell’Aruntata (la processione che la mattina di Pasqua simboleggia la risurrezione di Cristo e l’incontro con san Giovanni e la Madonna).
Il vescovo di Mileto Luigi Renzo ha chiesto ai fedeli di avere coraggio, di non lasciarsi «espropriare di ciò che appartiene al loro patrimonio religioso più genuino, lasciandolo in mano a gente senza scrupolo che non ha nulla di cristiano e anzi persegue una religione capovolta». Ed è partito al contrattacco con un nuovo severissimo regolamento, con i parroci chiamati in trincea a vigilare su feste e processioni. Nessuna asta per stabilire chi porta la statua, ma un’estrazione a sorte dei nomi. Fra le tante norme, quella che vieta espressamente di «girare o sostare con le sacre immagini davanti a case o persone, tranne che si tratti di ospedali, case di cura, ammalati».
In realtà la Conferenza episcopale calabra è dal lontano 1916 che si è espressa con note pastorali sulla necessità di vivere con «decoro» il culto. Negli anni recenti, si sono susseguiti gli appelli alla responsabilità di far fronte alla «situazione d’evidente crisi morale e politica dell’Italia» e della Calabria in particolare, con esplicito richiamo alla scomunica per coloro che fanno parte di organizzazioni malavitose, che devono essere esclusi dai sacramenti.
Tutti questi documenti sono stati pubblicati a giugno scorso in un libricino dal titolo esplicito: La ’ndrangheta è l’antivangelo (Tau Editrice), con la presentazione di monsignor Vincenzo Bertolone, presidente della Conferenza episcopale calabra. Ma a sferrare l’offensiva è stato papa Francesco con il suo discorso del 20 giugno 2014 davanti a 250 mila fedeli riuniti nella spianata di Sibari, a Cassano allo Ionio: gli uomini della ’ndrangheta «non sono in comunione con Dio, sono scomunicati». Da lì la riflessione che attraversa la Chiesa calabrese e la produzione di codici e discipline, anzi perentorie indicazioni, a operare nello spirito del Vangelo senza sconti per nessuno, raccogliendo anche il sentire di una società che non ne può più di morire asssiata dal malaffare.
Un’autorevole conferma del cambiamento arriva da Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, da anni in prima linea contro la malavita organizzata e autore, assieme allo storico Antonio Nicaso, di Acqua santissima (Mondadori, 2013), il racconto crudo dei rapporti vischiosi tra la Chiesa e gli uomini di ’ndrangheta, che all’epoca dell’uscita aveva sollevato infiammate polemiche. «Sì, qualcosa è cambiato dal discorso di papa Bergoglio in Calabria», commenta Gratteri. «Francesco si è rivolto non ai mafiosi , ma ai vescovi e ai preti. Da allora vedo posizioni molto più chiare e determinate, non solo dei vescovi . Qui ci sono anche semplici preti che, in punta di piedi, conducono la loro guerra quotidiana contro il crimine».
I cristiani protagonisti di questa battaglia civile, in effetti, non mancano. A Reggio Calabria tra gli animatori di Reggio non tace, movimento nato nel 2010 dopo un attentato contro la Procura, c’è Giuseppe Ladiana, superiore dei Gesuiti. Il religioso ci spiega senza mezzi termini che non vuole più sentir parlare di rapporto tra ’ndrangheta e Chiesa: certo, ci sono stati e ci sono ancora preti che nascondono la testa nella sabbia, ma ormai il consenso sociale la mafia non lo cerca più nelle sacrestie. In un mondo secolarizzato la Chiesa ha perso il suo potere e non trascina più le folle. Dal canto suo, a Reggio padre Ladiana segue alla lettera la missione affidata da Paolo VI ai Gesuiti: stare negli incroci della storia, ove vivono i crocifissi di oggi, cioè a dire tra le vittime. Reggio è periferia, frontiera esistenziale, nonostante la vetrina ben allestita, quei due chilometri di lungomare intercalati da palme e ficus giganteschi, e i palazzi liberty con vista mozzaato sullo Stretto. Un lungomare recuperato al degrado di decenni, frutto di quel breve periodo alla fine degli anni ’90 che, forse esagerando per ottimismo, fu chiamato la Rinascita di Reggio e che si è dissolto presto sotto i colpi del mala
ffare.
Quando la 'ndrangheta se la intende con amministratori, imprenditori e politici: fedeli che si oppongono
Ma si può ancora chiamarla ’ndrangheta ora che se la intende perfettamente con professionisti, amministratori, imprenditori, politici? «Oggi il punto di riferimento dell’organizzazione malavitosa è la massoneria, sono la politica, le amministrazioni, il mondo dell’economia, tutti i settori sono stati infiltrati», dice Ladiana. E allora per mettere argine alla prepotenza, alla violenza e alla corruzione non c’è altra via che la democrazia partecipata: formare i cittadini, far crescere le coscienze innanzitutto, dotare di strumenti critici giovani e adulti, attrezzarli con i codici dei propri diritti. Iniziative ogni mese, incontri, corsi di formazione alla legalità nei licei, se necessario scendere in piazza a chiedere, pretendere. Con il sostegno dei magistrati della Procura e delle forze dell’ordine. Così la gente di Reggio si sta facendo coraggio e reclama il proprio posto senza tacere.
A Locri la scuola per formare le coscienze è dentro un laboratorio teatrale. Figlio di un patto tra le Caritas delle dodici diocesi calabresi per costruire legalità anche attraverso la recitazione, il progetto Costruire speranza era stato accolto nel 2014 con qualche diffidenza ma ora sono arrivati i riconoscimenti e i premi anche dall’estero. I giovani coinvolti nell’iniziativa vanno dai 14 ai 30 anni: «Sono lavori autoprodotti, testi che nascono dai racconti che ci fanno delle loro famiglie», spiega Antonella Schirripa, animatrice del progetto. «Alcuni sono figli di padri con precedenti penali che si confrontano con altre storie: anche così si impara la legalità».
Anche a Lamezia Terme qualcosa sta cambiando: succede sempre più spesso che nelle parrocchie si discuta di mafia, un tempo la gente cambiava discorso. I fedeli hanno preso a fidarsi dei preti più impegnati e, se sostenuti, denunciano in tribunale chi li taglieggia, chi impone loro il pizzo come tassa sull’esistenza. Costruire speranza anche qui sta funzionando bene: «La giustizia è un servizio al mondo e non possiamo tenerci le perle se le abbiamo, dobbiamo condividerle», dice don Giacomo Panizza, vicedirettore della Caritas diocesana, dal 1976 a Lamezia, che ha subito intimidazioni, minacce, attentati (l’ultimo a luglio: un incendio sui terreni di una cooperativa sociale collegata a Progetto Sud, la onlus da lui fondata). «Ha fatto bene Francesco a dirlo ad alta voce, a gridare la parola “scomunicati!”», spiega don Panizza. E racconta che a Lamezia è stato un coro di «ha fatto bene!», «ora i preti non hanno più alibi», ora i preti dicono ai ragazzi che bisogna restare qui. «Lo scopo era fare breccia nella società civile ed era importante che l’impegno partisse dalla Chiesa», aggiunge Isabella Saraceni, indispensabile braccio operativo di Costruire speranza, mentre presenta i risultati di tre anni di lavoro: attività nelle scuole, negli oratori, gare sportive, la gestione di beni confiscati. La fatica maggiore? Superare paure, titubanze e pregiudizi.
Pure in questo caso, per affrontare il nemico devi conoscerlo; per difenderti e vincere, devi sapere. Così, da due anni nel seminario di Catanzaro la ’ndrangheta è diventata materia di studio, corso curriculare tenuto da storici, magistrati, uomini di Chiesa. Andrea Latelli, seminarista di 38 anni, è stato ordinato diacono a novembre. La sua sfida è portare il Vangelo tra i ragazzi di Lamezia Terme, accogliere il messaggio del Papa per cui «è meglio una Chiesa diroccata che sta nella strada piuttosto che starsene chiusi in sagrestia». «Il Vangelo», aggiunge, «ci chiede di portare la vita tra la gente, la missione di pace devi farla a casa tua, al Sud, terra di evangelizzazione». Laureato in filosofia, Andrea è stato direttore del personale di una grande azienda, «ma non era il mio posto», dice. «Il Signore mi ha chiamato a un compito più radicale».
Foto in testata di Michele Amoruso.