Non è una questione di dottrina, ma solo di tradizione. E finora l’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude il ricorso tradizionale della pena di morte. E’ per questo motivo che papa Francesco ha auspicato che il Catechismo venga modificato. Il punto in questione è il n°2267: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani”.
Ma è un problema di Tradizione, che risale a san Tommaso d’Aquino il quale nella Summa Teologica osservava che “quando una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità”. San Tommaso aggiungeva poi nel “De caritate” che chi uccideva facendo osservare la giustizia non commetteva peccato. Il Concilio di Trento, nel sui Catechismo, n° 328, ribadiva la riflessione di san Tommaso così come il Catechismo maggiore di Pio X, al n° 413, dove si dice che è lecito uccidere quando si combatte “una guerra giusta” e quando “quando si eseguisce per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto”.
Qualcosa è cambiato, almeno nella spiegazione di una sensibilità diversa nel Compendio di Benedetto XVI pubblicato nel 2005 dove si rileva n° 469 che “oggi a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere il crimine rendendo inoffensivo il colpevole, i casi di assoluta necessità di pena di morte sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti”. E’ un ragionamento che aveva già fatto Giovanni Paolo II nel 1999, in visita negli Stati Uniti, suscitando polemiche visto l’uso della pena di morte che si fa oltreoceano, quando riconobbe che “la società moderna possiede gli strumenti per proteggersi, senza negare ai criminali la possibilità di ravvedersi”. Quindi l’appello “per abolire la pena di morte, che è crudele e inutile”.
Dallo Stato della Città del Vaticano, dopo una prima abolizione de facto, ma non de jure della pena di morte da parte di Paolo VI fu Karol Wojtyla che, con un motu proprio nel febbraio 2001, ad abolirla in modo definitivo dalla Legge fondamentale vaticana. Nello Stato pontifico se ne è fatto un uso disinvolto per secoli, ma era considerato l’unico modo per contrastare la delinquenza. E su questo lo Stato pontificio non si discostava dagli atteggiamenti degli Stato dell’epoca. Solo tra il 1796 al 1864 Giovanni Battista Bugatti , il boia più famoso dello Stato pontificio conosciuto come Mastro Titta, si occupò di 516 esecuzioni, tra impiccagioni, decapitazioni e uso del martello. A volte veniva anche usato il metodo dello squartamento. La pena di morte fu praticata sino al 1870. Le ultime due esecuzioni tramite la ghigliottina furono a Roma nel 1867 quelle di Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, patrioti italiano colpevoli di un attentato alla caserma degli zuavi nell’intento di far sollevare la popolazione di affrettare l’intervento di Garibaldi. Pio Ix pur supplicato non concesse la grazia. L’ultimo giustiziato in assoluto nello Stato Pontificio fu Agatino Bellomo, condannato per omicidio e ghigliottinato a Palestrina due mesi prima della conquista di Roma da parte delle truppe sabaude. Con la conquista dello Stato della Chiesa e la sua annessione al Regno d'Italia, la Santa Sede, non disponendo più di una sovranità temporale, venne privata del diritto di comminare la pena di morte.