La legge dell’incarnazione prevede che ci prendiamo cura non solo della nostra dimensione spirituale, bensì anche del nostro corpo. E questo vale per le singole persone come per la comunità ecclesiale, il cui corpo è la struttura istituzionale, che evidentemente ha bisogno di sostegno materiale, ossia di beni terreni. I beni materiali devono essere finalizzati alla missione della Chiesa, che è il Regno di Dio (non di questo mondo), in tal modo vengono relativizzati e considerati solo come mezzi o strumenti per l’evangelizzazione. Gesù di Nazareth, durante la sua vita pubblica, veniva supportato da persone, che mettevano a sua disposizione i propri averi, per consentirgli di dedicarsi alla proclamazione del regno di Dio, attraverso i suoi gesti e le sue parole (Lc 8,1-3).
Non si tratta quindi di essere pauperisti o populisti nell’affermare la necessità della “Chiesa povera”, bensì di indicare il senso della presenza della comunità dei credenti nel mondo. Ricordiamo le dispute medievali sulla povertà di Gesù e la povertà della Chiesa, che ci mettono in guardia dal ritenere l’appello del “beati i poveri” in senso ideologico, con possibili derive violente (si pensi a fra’ Dolcino). A tal proposito rimando alla disputa rappresentata nel libro (e nel film) Il nome della rosa di Umberto Eco. Ma sono istruttive anche le laceranti discussioni, che hanno caratterizzato gli inizi del francescanesimo e che hanno riguardato proprio il rapporto dei discepoli di Francesco con i beni terreni. Nessuno ha la forza di imitare alla lettera il poverello di Assisi, ma tutti possiamo riferirci alla povertà come orizzonte del nostro essere cristiani e/o religiosi.
Proprio onde evitare possibili derive, nel Nuovo Testamento abbiamo due versioni della prima beatitudine: la prima (che probabilmente riporta le stesse parole pronunciate da Gesù di Nazareth) la rinveniamo in Luca (6, 20): “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio”. E qui si rivolge direttamente a coloro che ascoltano la sua parola. Nel vangelo di Matteo (5, 3), invece, leggiamo “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Perché questa differenza? Ce la possiamo spiegare, se riteniamo che la chiesa delle origini, tramite l’evangelista Matteo, interpreta autorevolmente (il testo è ispirato come quello di Luca) la parola del Signore e la spiritualizza, non per annacquarla, ma proprio per metterci in guardia da un’interpretazione sociologica ed ideologica della figura del “povero”.
Ma questa “spiritualizzazione” non deve farci abbandonare l’attenzione a coloro che concretamente vivono in stato di indigenza. Questo perché di fronte al povero siamo posti al cospetto di un essere umano, al di là dei ruoli, delle ricchezze, delle maschere, delle funzioni e quindi siamo di fronte alla persona tout court, che ha molto da insegnare e da cui abbiamo molto da ricevere, proprio mentre ci apriamo e doniamo. Ricordo sempre con commozione l’episodio di una signora, che, dopo aver fatto elemosina a un povero (davanti a un supermercato), riceve il grazie del clochard, a cui risponde “Grazie a lei!”.
L’aver a che fare con ingenti somme di denaro o beni terreni da amministrare comporta spesso il sottoporsi alla tentazione di appropriarsene o di gestirli in maniera impropria, senza finalizzarli al bene vero della Chiesa, il cui tesoro, come diceva san Lorenzo sono i poveri. Di qui gli scandali, cui assistiamo e abbiamo assistito, che provocano smarrimento nei fedeli e nell’opinione pubblica. Nelle recenti vicende che popolano i media, bisogna tener conto del fatto che è stata la struttura stessa del Vaticano ad aprire l’inchiesta e a segnalare le possibilità di gravi irregolarità. Né dobbiamo dimenticare la presunzione d’innocenza delle persone, finché la giustizia non si pronunci. Ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che chi ha più potere e accesso ad ingenti beni materiali ha più necessità di una profonda vita spirituale e del sostegno della preghiera propria e dei credenti.