Siria, 21 agosto 2014: così si presentava una chiesa cristiana di Maaloula, devastata da fondamentalisti islamici. Foto Reuters.
Anversa, Belgio
Nostro servizio
«Oggi
– ha recentemente detto papa Francesco – ci sono più martiri che
nei primi tempi della Chiesa, tanti fratelli e sorelle nostre che
offrono la loro testimonianza e sono perseguitati. Sono condannati
perché posseggono una Bibbia, non possono portare il segno della
croce». Di questa “processione di martiri” – ultime le tre
suore italiane saveriane uccise ieri in Burundi – si è parlato
questa mattina in un panel dell’incontro interreligioso organizzato
ad Anversa dalla Comunità di Sant’Egidio.
Il
cardinale nigeriano Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, ha ricordato
come «martire derivi dal greco “testimone”»: nella sua diocesi,
dove i cristiani rischiano la vita per gli attacchi terroristi degli
islamisti di Boko Haram, «la situazione sta peggiorando». «Uno dei
motivi – ha detto – è l’esclusivismo, l’accettazione solo di
chi è uguale a sé. Per questo, incontri come quello di questi
giorni, in cui si afferma la necessità della pace religiosa, sono
fondamentali».
Come
essere “testimoni” durante quella che il Papa ha chiamato «terza
guerra mondiale» a brandelli? Mentre
in Ucraina vacilla la tregua e si torna a sparare, il
vescovo
ortodosso Nikolaj di Kiev ha indicato la strada: lavorare per la
pace, anche quando sembra «la possibilità dell’impossibile».
«Oggi – racconta il vescovo – la nostra Chiesa, che sta aiutando
i profughi scappati da casa, unisce persone assolutamente diverse in
tutta l’Ucraina e noi tutti siamo familiari e infinitamente vicini
l’uno all’altro. A me è vicino e comprensibile il dolore di
ciascuno, e oggi cerchiamo di aiutare, con quello che possiamo, tutti
coloro che soffrono per la guerra. Custodiamo il principale tesoro
dell’Ucraina: la pace interreligiosa e interecclesiale». Citando
l’esempio di padre Spiridon, cappellano durante la Prima guerra
mondiale, il vescovo ha ricordato che i cristiani di ogni confessione
debbono affermare che «non esistono guerre giuste». E ha aggiunto:
«Debbono mantenere una distanza interiore da uno Stato che
desiderasse rafforzare il patriottismo con simboli cristiani, non
devono cedere al delirio patriottico o nazionalistico».
Il
vescovo siro-ortodossa Kawak ha ricordato la persecuzione contro i
cristiani in Iraq e Siria, «martiri perché testimoni di Cristo».
La sua Chiesa ha già subito un genocidio, quello del Sayfo (Spada),
quando mezzo milioni di siriaci furono uccisi dai turchi a margine
della Prima guerra mondiale, in contemporanea alla tragica fine degli
armeni. «E oggi – ha detto – non sono martiri i cristiani
cacciati da Mosul e dalla Valle di Ninive? Non lo sono le donne
vendute come schiave e a cui è rubato il futuro? A Sadat, in Siria,
80 cristiani sono stati uccisi dalle milizie islamiste e a Maalula i
cristiani sono diventati le pecore condotte al sacrificio di cui
parla la Scrittura».
Ma
come deve comportarsi un cristiano nella persecuzione? Secondo il
vescovo, anche in mezzo alla violenza, «il credente deve professare
la fede con dolcezza e rispetto, segni della vera forza, come ci
insegna il perdono dato ai persecutori da tanti martiri».
È questo
un tema ripreso anche da don Angelo Romano della Comunità di
Sant’Egidio, rettore della Basilica di San Bartolomeo all’Isola
di Roma, dove Giovanni Paolo II volle raccogliere la memoria dei
martiri cristiani da tutto il mondo e da tutte le chiese cristiane.
Tra le reliquie qui conservate, c’è una piccola croce di Suor
Leonella Sgorbati, uccisa il 17 settembre 2006 all’uscita dopo
ripetute minacce dall’ospedale di Mogadiscio. «In Somalia c’era
la guerra – ricorda don Angelo – e con essa oscuri disegni di
terrorismo e di violenza contro i pochissimi cristiani ancora
presenti. Suor Leonella era accompagnata dal suo autista somalo,
Mohammad, musulmano e padre di quattro figli, che vide giungere
l’assassino e, per difenderla, corse a coprirla con il suo corpo,
morendo lui per primo. Suor Leonella, morì poco dopo ripetendo
“perdono, perdono”. Questa storia disegna un’icona di come
dovrebbero essere i rapporti tra cristiani e musulmani, amarsi l’un
l’altro al punto da dare la vita gli uni per gli altri».
Nel
panel, il vescovo romeno Virgil della Chiesa greco-cattolica ha
ricordato come, durante i regimi comunisti, la persecuzione abbia
unito credenti di diverse confessioni cristiane, che si sorreggevano
l’un l’altro: «Nelle prigioni e nei campi di lavoro, tutti erano
fratelli; ricordo un battesimo celebrato da un prete ortodosso con
due assistenti cattolici».
Infine,
monsignor Jesus Delgado, vicario generale di San Salvador e
segretario del vescovo ucciso sull’altare nel 1980, ha sottolineato
come «Romero aveva paura e più volte lo aveva manifestato. Non
moriva per eroismo, ma era convinto di dover adempiere ai suoi doveri
di cristiano». Proprio per questo, Delgado accosta la figura del
pastore salvadoregno, di cui si è finalmente sbloccata la causa di
beatificazione, a William Quijano,
«un giovane della Comunità di Sant’Egidio ucciso
dalle maras, bande giovanili diventate oggi un nuovo fenomeno
mafioso, con intrecci oscuri con il narcotraffico e il coinvolgimento
di circa 100.000
persone».
Sono realtà molto violente che impongono la loro autorità su interi
quartieri dei centri urbani, ed ultimamente anche alla campagna.
Racconta il vescovo: «William,
che lavorava nel distretto di Apopa, amava la vita e in maniera
amichevole ha attratto molti giovani e bambini alla Scuola della
Pace. La sua vita testimonia che si può fare il bene, vivere in modo
pacifico e solidale anche in mezzo alla violenza cieca, alla morte e
alla mancanza di pietà. È un vero martire del nostro tempo».
Aveva scelto di stare dalla parte dei poveri, mischiando giorno per
giorno la propria vita con il Vangelo, come diceva monsignor Romero:
«Dare
la vita non è solo l’effusione del sangue, dare
la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito
di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel
compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana;
dare la vita a poco a poco Come la dà una madre, che senza timore,
con la semplicità del martirio materno, concepisce nel suo seno un
figlio, lo dà alla luce, lo allatta, lo fa crescere e accudisce con
affetto. È dare la vita. È martirio».