«Testare, tracciare, isolare. Bisogna affiancare alla campagna vaccinale una strategia forte di eradicazione del virus». Non fa polemiche sul lockdown, Walter Ricciardi, ma continua a sostenere con forza che «il virus va anticipato e non inseguito», e che «finora le scelte che si sono dimostrate più positive sono state quelle che hanno puntato all’eliminazione del virus e non alla convivenza con esso». Direttore del Dipartimento di Scienze della salute della donna, del bambino e di Sanità pubblica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, consigliere del ministro della Salute italiano Roberto Speranza e appena nominato da papa Francesco membro della Pontificia accademia per la vita, traccia il bilancio di quest’anno di pandemia.
A che punto siamo?
«La battaglia è ancora lunga. La differenza viene fatta dalle due opposte scelte dei governi».
Quali sono?
«Quella della convivenza o quella della eliminazione. La stragrande maggioranza dei Paesi del mondo sta scegliendo la prima strada, che è ancora foriera di molti casi, di tanti morti e di conseguenze sull’economia e sulla psicologia dei cittadini. Un numero ristretto di Stati ha scelto, invece, l’altra. Parliamo di Cina, Taiwan, Singapore, Corea, ma anche di nazioni Occidentali come l’Australia e la Nuova Zelanda. Si è visto che, a distanza di un anno, questi ultimi sono tornati quasi alla normalità. Anche gli Stati Uniti, con la nuova presidenza Biden oggi stanno puntando alla eliminazione».
Chiede un lockdown per l’Italia?
«Ci vorrebbero due passi. Il primo è quello di una chiusura dura e concentrata nel tempo. Parlo di poche settimane. Ma questo a patto che, alla riapertura, quando il virus sarà ridotto ai minimi termini, possiamo testare, tracciare e adottare comportamenti come le quarantene e il distanziamento fisico che ne rendano impossibile la ripartenza. Soltanto queste due condizioni legate l’una all’altra possono funzionare. Queste due cose sono la possibilità più seria che abbiamo di eradicare il virus».
I soli vaccini non bastano?
«Se arriveremo a una immunità di gregge, questo avverrà in molti e molti mesi. Sperando intanto che le varianti non rendano vano questo tentativo. Non voglio essere frainteso. La strategia vaccinale è un perno essenziale, bisogna vaccinare tanto e in breve periodo, ma in questo momento non è sufficiente. Lo dimostra il caso della Gran Bretagna, che sta vaccinando molto, ma che ha il record di morti. Alla vaccinazione vanno affiancate altre misure».
Serviranno anche gli anticorpi monoclonali?
«Possono darci una mano. Sono un’altra arma nell’arsenale, ma non ancora quella risolutiva».
Dunque linea dura?
«Ripeto, una chiusura ha senso se c’è l’obiettivo, alla riapertura, di non far sfuggire il virus. Ci vuole un cambio di direzione. Anche alcuni scienziati inglesi hanno fatto una petizione al loro Parlamento perché abbracci questa strada. Lo chiedono anche gli esperti tedeschi. Spero che il nuovo governo italiano ascolti queste voci, compresa la mia».
Il piano vaccinale va rivisto?
«Nella sua teoria no, nell’organizzazione pratica sì. Ci vuole un coordinamento forte e una omogeneità sul piano nazionale. Il piano vaccinale sulla carta c’è ed è un piano coerente, ma il suo problema è la realizzazione. Dobbiamo vaccinare 250mila persone al giorno tutti i giorni, festivi compresi, altrimenti non riusciremo a raggiungere gli obiettivi».
Cosa pensa di AstraZeneca?
«L’Ema, l’agenzia europea, ha dato indicazioni per l’utilizzo fino ai 65 anni e l’Italia ha fatto lo stesso. La ritengo un’arma importante perché è un vaccino molto versatile, che non ha bisogno di essere conservato a temperature molto basse, non ha esigenze logistiche particolari e quindi può essere somministrato in molti luoghi».
Ma ha una bassa copertura.
«Non credo sia un problema. Alle persone più a rischio sono destinati i vaccini più immunoprotettivi. Gli altri sono un’ottima arma. Anche se poi, per quelli che hanno una copertura inferiore al 90%, è consigliabile la prova degli anticorpi».
Le regioni si stanno muovendo in modo diverso. È un problema?
«È l’anticamera per l’insuccesso. Ai virus non interessano le circoscrizioni amministrative. Se una Regione fa meglio dell’altra se ne infischia e continua a diffondersi. Questa pandemia dovrebbe essere risolta da una collaborazione mondiale, o almeno europea».
Le informazioni, però, sembrano, ogni volta, spiazzare i cittadini.
«Bisogna comunicare meglio per non ingenerare confusione. E poi se ai cittadini si danno margini di libertà, giustamente, se li prendono. Il punto è cercare un equilibrio spiegando che, se si fanno dei sacrifici, questi saranno compensati da una risposta importante da parte dello Stato. Il rigore ci dà una possibilità maggiore di ritornare a una normalità. Se ci si ostina, invece, su questo apri e chiudi, su questo su e giù, il Paese continua a precipitare in una instabilità sia sanitaria che economica. E, alla fine, il prezzo lo paghiamo tutti».