Era un tipo sobrio Davide Astori, senza grilli per la testa né creste in testa. Nessun tatuaggio che spuntasse fuori dalla maglia e faccia pulita in campo e fuori: più sostanza che immagine. Su quella aveva costruito una carriera solida senza clamori, guadagnandosi a Firenze, dove stava giocando, la fascia di capitano, a 31 anni dopo due stagioni con tante, tante presenze. Quando serviva Astori c’era, lo sapevano tutti e per questo è stato naturale che passasse a lui, alla partenza di Gonzalo Rodriguez, la fascia di capitano della Fiorentina.
Con Firenze aveva un legame forte, è vero che lo dicono tutti quando giocano in una squadra, ma era diversa la ragione che adduceva: “Ovunque io vada a finire”, diceva “sarà sempre la città natale di mia figlia”. Non sarà facile, ora, spiegare a Vittoria e ai suoi due anni perché stasera il suo papà non tornerà ad abbracciarla ed è un motivo in più di non darsi pace dell’inaccettabile: perdere un padre di 31 anni nel pieno della prestanza fisica, come sempre dovrebbe essere chi fa sport d’alto livello. Arresto cardiaco la prima ipotesi, gli accertamenti diranno il resto e sarà difficile ugualmente, anche se dovessimo chiamare soltanto destino quel che è accaduto.
Non poteva dire Astori che aveva sognato la Fiorentina tutta la vita, perché il difensore centrale del suo cuore, quello cui avrebbe voluto somigliare si chiamava Alessandro Nesta. Non per caso aveva il 13 sulla maglia dal giorno in cui l’ha potuto scegliere: diceva che gli portava fortuna ed era il numero del maestro che si era scelto, fin da quando ragazzino giocava nel Porto San Pietro squadra satellite del Milan, dov’era stato dal 2001 al 2007. Di lì era andato in prestito al Pizzighettone squadra della provincia di Cremona e poi in Lega Pro alla Cremonese.
Il volo per la Seria A però l’ha preso lontano, a Cagliari dov’era arrivato lui bergamasco di San Giovanni Bianco d’origine, nel 2008 sempre in comproprietà col Milan, riscattato dal Cagliari per l’altra metà del cartellino solo nel 2011.
In Sardegna diceva che si era sentito a casa, anche se l’acquisto all’inizio non gli aveva portato fortuna: un incidente di gioco gli era costato quasi subito una frattura di tibia e perone, lo stesso incidente di Gigi Riva, precedente illustre di gran lombardo felicemente trapiantato in rossoblù.
A Cagliari Astori aveva trovato la sua solidità di difensore, prima di passare un anno alla Roma e di trovare la fascia e la fama a Firenze.
Da Cagliari aveva esordito in Nazionale, nel 2011 in amichevole al posto di Chiellini, uno dei suoi amici in Nazionale. Con l’Italia di Prandelli aveva anche giocato la finalina di Confederation Cup in Brasile segnando un gol, il primo di un rossoblù in Nazionale da quarant’anni a quella parte: l’ultimo era stato Gigi Riva nel 1973.
Nel privato aveva due hobby: la famiglia e il design; in cuffia le canzoni del Liga, anche se non era un mediano. Da calciatore si riconosceva un pregio e un difetto: la tranquillità con cui giocava al calcio. Ma sotto sotto forse sapeva che era sinonimo d’affidabilità, la dote che l’aveva reso capitano prima di diventarlo, con tanti minuti autorevolemente giocati dentro la maglia viola numero 13, la sua maglia, quella con cui sognava di: “vincere qualcosa di importante”.