Era schivo, timido, gentile. Quando gli chiesi di poterlo intervistare, non rispose subito. Ci pensò, mi telefonò, mi ritelefonò, mi telefonò ancora, perché attorno a se’ non voleva clamore, ne’ pubblicità: desiderava continuare a svolgere il suo servizio tra gli ultimi, come aveva sempre fatto. Sporcarsi le mani nelle miserie dei più poveri tra i poveri: carcerati, ragazzi difficili, prostitute, senza fissa dimora, per cui aveva avviato il servizio Esodo, un camper con pasti caldi.
Don Fausto Resmini è morto l’altra notte, a 67 anni. Aveva il CoVid19 ed era ricoverato all’ospedale di Como in terapia intensiva. Uno dei 20 sacerdoti della bergamasca colpiti dal coronavirus e caduti durante la loro testimonianza (sono oltre 50 a oggi in tutta Italia). Perché don Fausto andava fino in fondo. Senza paura. Senza tirarsi indietro. Rischiando in prima persona.
Era nato a Lurano, nella Bassa bergamasca: di quella terra aveva ereditato il carattere, forte e duro, coraggioso e sincero. Poi aveva scelto il Patronato San Vincenzo di Bergamo, un pilastro dell’impegno per il sociale, accanto a don Bepo Vavassori, una delle figure più conosciute e amate della Chiesa di Bergamo, fondatore del Patronato, che accoglieva i bambini sullo stile di don Bosco. Dal 1992 Resmini era cappellano del carcere di via Gleno; viveva a Sorisole, nella Comunità don Milani, dedicata al recupero di minori “difficili”, da lui fondata. Ed è lì che mi diede appuntamento, in quell’oasi circondata dalle montagne, in un’afosa giornata di agosto.
Metteva quasi soggezione don Fausto, all’inizio. Perché sembrava leggerti dentro. Ma senza giudicarti. Del resto, la condanna era quanto di più lontano potesse concepire. Lo volli intervistare per una curiosità giornalistica; ottenni da lui un dono inaspettato: mi regalò un pezzo della sua anima. Dal cappellano del carcere di Bergamo volevo sapere qualcosa di Massimo Bossetti, il muratore condannato per l’omicidio della piccola Yara, una storia che a quel tempo aveva commosso l’Italia. E io desideravo capire. Come potesse un sacerdote dare la comunione a un uomo che era stato accusato di aver lasciato morire un’adolescente, prima di tutto. Ma anche come riuscisse a convivere con il Male, ogni giorno. E don Fausto iniziò parlandomi di Bossetti. Ma poi mi diede una lezione di fede. Di speranza. Di umanità. Parlando di carcere e, nello stesso tempo, parlando di tutti noi.
Don Fausto era l’unico a poter vedere tutti i giorni Massimo Bossetti. Insieme pregavano, leggevano il Vangelo, meditavano. Gli chiesi: “Don Fausto, come riesce a stare accanto a una persona accusata di aver ammazzato una bambina?”. Lui allargò le braccia, sorrise come fa un padre, quando il figlio si ostina a non capire, e mi rispose: “Che sia innocente o colpevole, a me è affidato un uomo. E in nome del Vangelo, io mi incontro con un uomo. Indipendentemente da come è dipinto dalla stampa, da come è visto dal magistrato, da come è trattato dall’amministrazione carceraria... E in quest’uomo, ora il più indesiderato e scomodo, io devo dare ascolto alla sua richiesta d’aiuto, camminare insieme a lui anche sfidando il pregiudizio... Chi ha sbagliato rimane persona, sempre”.
In una mattinata intera, don Fausto mi ha raccontato i suoi 30 anni di carcere: la stagione del terrorismo, quella di Mani pulite, i tanti volti incontrati, i tossicodipendenti riscattati e adesso gli stranieri, un’emergenza nell’emergenza, nelle carceri italiane. “Se dovessi dare oggi una definizione del carcere”, mi disse, “non esiterei a definirlo il carcere dei poveri, dove il 50% sono stranieri, figli di nessuno... Oggi la maggioranza non professa la fede cristiana. È per questo che il prete diventa uomo tra gli uomini non sul piano della stessa fede, ma del riconoscimento che la via della riconciliazione passa attraverso l’uomo”.
I “suoi” detenuti lo amavano, perché lui sapeva incontrarli, abbracciarli: “La via per incontrare l’altro è il Vangelo, altrimenti se non c’è il riconoscimento che oltre l’errore un detenuto resta sempre una persona, come si fa a stringere la mano a chi ha compiuto reati, anche abominevoli? Noi preti dobbiamo convertirci all’accoglienza dell’altro, è nostro compito dare rilevanza, spazio e consistenza al bene. In ogni persona. Anche la più rifiutata. E dare rilevanza vuol dire fare in modo che questo bene esca e riduca i danni che il male ha fatto”. Ci credeva don Fausto, e lo testimoniava con la vita. A Sorisole, raccoglieva ragazzi difficili, appunto, ma anche coloro che gli venivano dati in affidamento, come alternativa al carcere. E sapeva essere critico: contro i buonisti cristiani (“Sono disponibili all’inserimento degli ex detenuti, ma li vorrebbero a 100 km da casa: questo è un crisitianesimo di facciata”), ma anche contro una piccola parte del clero (“La Chiesa ha finito per legare la morale sessuale al consenso. Venendo a mancare il consenso, non è più stato difeso il valore che la sessualità rappresenta”).
Gli chiesi se provasse imbarazzo a dare i sacramenti a un assassino, e la sua risposta fu disarmante: “Il prete è l’espressione massima dell’incontro libero con l’Altro. Quando avviene questo incontro, bisogna riconoscere innanzitutto che solo Dio sa leggere il cuore dell’uomo. In questi momenti, so che posso aver contro tutta la società, ma che ho davanti un uomo, solo un uomo che soffre. Quell’uomo chiede a me conto di Dio e io non glielo posso negare”.
Prima di lasciarmi, don Fausto mi fece fare il giro della sua comunità e mi fece conoscere i ragazzi in affidamento. “Don”, gli chiesi, “ma non ci sono sbarre qui: non hai paura che i ragazzi scappino?”. E lui, con il solito sorriso, paziente e disarmante: “E perché dovrebbero farlo? Qui hanno una casa”. Già, Resmini era “casa” per tanti. A servizio di tutti: non solo detenuti e le loro famiglie, ma anche gli agenti della Polizia Penitenziaria. Quelli di Bergamo, oggi hanno voluto ricordarlo così: “Caro Don Fausto… non poteva finire così! Quante giornate passate insieme nel carcere di Bergamo (tu da cappellano e lo scrivente da Ispettore e dirigente sindacale della Polizia Penitenziaria), a parlare e confrontarci dei problemi dei detenuti e del nostri agenti. Avevi a cuore le problematiche di tutti e ti facevi in quattro per cercare di risolverle e di portare un po’ di sostegno morale e materiale, in particolar modo ai poveri e tanti detenuti extracomunitari indigenti e privi di ogni legame familiare. Sei stato un grande cappellano ed un grande amico e, nonostante le nostre strade si sono divise nel lontano 2015, la stima che ci legava è rimasta indelebile sulle nostre pelli. Ti ricorderemo sempre con affetto! Riposa in pace fra le braccia del nostro amato Gesù e di sua madre Maria”.
Mi telefonò, don Fausto, qualche giorno dopo l’uscita dell’intervista. Non per ringraziarmi. Ma per richiamarmi: “Mi hai messo in un bel guaio”, mi disse, “ora tutti mi cercano, vogliono intervistarmi, ho le troupe televisive alle calcagna, devo farmi negare...”. Ma sorrideva, con la sua voce dolce. Non rilasciò mai altre interviste su Bossetti. Aveva già detto tutto a noi. Scelse, ancora una volta, l’umiltà e il silenzio. Quello stesso silenzio che lo ha accompagnato, fino alla fine e che lo ha fatto amare a molti.