Uno svizzero,
Oliver Zaugg, ha vinto abbastanza a sorpresa il Giro di Lombardia, ultima
grande corsa della stagione 2011 in cui nessun ciclista italiano ha colto un
grande traguardo (diciamo delle classiche di un giorno, cioè, e delle massime prove a tappe). Vincenzo
Nibali, in fuga per 38 chilometri nel finale, ci ha lasciato credere di
potercela fare, poi ha ceduto.
L’ultimo grande traguardo di un italiano nelle
prove di un giorno è stato proprio il Lombardia di Damiano Cunego, però nell’ormai
lontano 2008, mentre per le prove a tappe c’è stato il bel 2010 di Ivan Basso
al Giro e di Nibali alla Vuelta, cioè al
Giro di Spagna.
E’ un po’ come nella cosiddetta grande
economia: c’è la crisi generale e c’è quella italiana. Stanno tutti male, almeno
quelli del gran ciclismo tradizionale, ma noi temiamo di stare peggio di tanti
altri, e pare proprio che sia vero, anche se siamo incerti sul perché.
Il ciclismo
belga ha se non altro un Gilbert ammazzaclassiche, quello francese ha un soffio
permanente di vitalità, che si esprime nei successi fra i giovani e nel Tour,
amatissimo nell’”esagono” anche se nessun francese lo ha vinto dal 1985 di
Hinault, e anzi nessun francese ha mai autorizzato da allora la speranza di
poterlo vincere. E la Spagna della bicicletta sembra davvero quella della
politica: stava progredendo a passi da gigante, non ha fatto in tempo a diventare
dominante e adesso sembra piallata dal fenomeno del doping intanto che minata
dall’eccessivo permissivismo, proprio come i vecchi spagnoli lamentano sia
accaduto nella vita di tutti i giorni, con
l’irruzione nel Paese, dopo tanto franchismo dittatoriale, di libertà e poi di
anarchia e infine di licenza dei costumi (oh, si dice sempre che lo sport è come
la vita, e ci pare che la frase valga più che mai: intanto che la vita, spesso,
è come lo sport).
Noi italiani fra l’altro siamo fermi quanto a talenti nuovi,
Nibali è bravo ma sembra che gli manchi il classico centesimo per fare l’euro, insomma
non è un Contador “de noantri”, e i nostri
giovani sono promettenti, il che vuol dire molto e nulla.
Ma andiamo oltre. Ci pare che, in sintonia
(insomma…) col mondo tutto, sia in atto nel ciclismo un cambiamento cosmico, epocale,
totale, a piacere. Del quale ancora non si vedono bene le linee generali,
intanto che però se ne intravvede l’ineluttabilità.
Forze e formule economiche
nuove urgono nel mondo, forze atletiche nuove urgono nel ciclismo. Il 2011 è
stato l’anno del primo australiano vittorioso al Tour de France (Cadel Evans,
che però ha moglie italiana…), nonché del secondo inglese campione del mondo su
strada (Mark Cavendish, che si allaccia al suo connazionale Tom Simpson iridato
nel 1965, sì, il Simpson morto di doping e cognac e sole sul Mont Ventoux nel Tour
1967). E per i Giochi di Londra 2012 lo sport britannico conta molto sul suo
ciclismo, anche su pista, apportatore di medaglie.
Intanto ci sono sempre più
kazaki, uzbeki e bielorussi ed estoni e lettoni
(tante le forti pedalatrici
“baltiche) nei grandi ordini di arrivo, la diaspora dell’Unione
Sovietica sembra avere dato la stura a pedalate fortemente nazionalistiche.
Ormai forte è il ciclismo dell’America Latina, che fra l’altro infoltisce di
suoi atleti, migranti a caccia di cittadinanze “ricche”, il ciclismo
statunitense e canadese. La bicicletta da competizione va in Oriente attraverso
gare ricche in ricchi Paesi petroliferi arabi, fra un po’di anni ci sarà un
discreto ciclismo asiatico, non solo giapponese, e soprattutto un grosso
ciclismo cinese.
Quella classica di Francia-Italia-Belgio è una
geografia che “tiene” soltanto per nobiltà territoriale di lombi, con ricorso
continuo alla tradizione: il Tour, il Giro, le grandi classiche, dove però
sempre più vincono “gli altri”. Per
rimanere alla Vecchia Europa, Svizzera e Germania aspettano di riavere qualche campione/simbolo
(da questo punto di vista con i fratelli Schleck sta meglio il Lussemburgo),
l’Olanda si difende, il ciclismo iberico (non portoghese) ha già i campioni ma
li vela di dubbi chimici.
L’Italia è in stallo, il problema è già stato
affrontato qui, la soluzione veloce non esiste, e non si vede all’orizzonte
anagrafico un nostro campione, magari offertoci da qualche magia molto nostrana.
La geografia complessiva è nuova, non per
nulla la federazione mondiale è presieduta da un irlandese, Pat McQuaid. Resta
il fatto che la bicicletta non solo resiste come mezzo di locomozione o di
pratica sportiva salutistica, ma si espande come strumento di sopravvivenza
(dire di bici come mezzo alternativo sano all’auto è ormai troppo poco) alla
motorizzazione ed al costo della benzina, anche se con rischio di
contaminazioni tecnologiche (sempre più diffusi i modelli con motorino elettrico ausiliario ad
aiutare la pedalata).
Ferve intanto la battaglia molto tipica del ciclismo, ma
non solo, fra poesia e chimica, sentimento d’amore popolare verso i personaggi
di vetrina e diffidenza verso certe loro imprese, fiducia relativa nella
giustizia e timore forte dell’ingiustizia. Come per il mondo “altro”, insomma.