(Foto Reuters. Qui sopra: alcune studentesse puliscono le strade di Santiago dopo le proteste. In copertina: faccia faccia tra manifestanti e forze dell'ordine)
Il Cile è piombato nel caos. La protesta, scoppiata la scorsa settimana come reazione all'annunciato - in seguito ritirato - aumento del 30% delle tariffe dei trasporti pubblici, si è trasformata in breve in uno scontro acceso tra manifestanti e forze dell'ordine. Il rincaro dei servizi pubblici è stato la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo, scatenando la rabbia della popolazione, esasperata da una serie di precedenti rincari.
Dall'inizio delle dimostrazioni 1.500 persone sono state arrestate (650 soltanto nella capitale, dove si concentra il movimento di protesta, comunque diffuso anche nel resto del Paese), il bilancio attuale delle vittime è di almeno 15 morti. Dopo la dichiarazione dello stato di emergenza in sedici regioni, a Santiago e in altre città, da Valparaíso a Concepción, è stato decretato il coprifuoco, dalle 22 alle 7 del mattino, con restrizione delle libertà di movimento e di riunione. Una misura eccezionale, senza precendenti, in tempo di democrazia, che rimanda immediatamente al passato recente del Paese sudamericano: di colpo, nell'arco di pochi giorni, il Cile democratico sembra essere ripiombato nel periodo buio della dittatura, quando le strade erano sotto il controllo militare. Era dal 1987, durante il regime di Augusto di Pinochet, che in Cile non veniva imposto il coprifuoco. «Siamo in guerra contro un nemico potente e implacabile, che non rispetta nulla o nessuno», ha dichiarato il presidente Sebastian Piñera, riferendosi alle distruzioni e ai saccheggi perpetrati dalle frange più violente del movimento di protesta. Ma ha sollevato forti critiche usando un termine, "guerra", decisamente infelice, che il presidente ha poi cercato di ritrattare e mitigare in una successiva dichiarazione.
Per le strade si sono riversati giovani, studenti, donne, lavoratori di tutte le età, professionisti che in passato non si sarebbero neppure sognati di scendere in piazza. Un movimento spontaneo e trasversale, senza una leadership politica. «Gli atti vandalici da parte dei manifestanti, i saccheggi e gli incendi ci sono, ma sono solo una minima parte, una frangia estrema e limitata del vasto movimento di protesta. Al Governo però fa comodo mettere in evidenza attraverso i mezzi di comunicazione la faccia più violenta del malcontento», osserva Andrés Ortiz, 47 anni, disegnatore industriale, rientrato a Santiago circa dieci anni fa, dopo aver studiato e lavorato a lungo a Barcellona, fino a quando la crisi economica della Spagna non lo ha spinto a tornare nel suo Paese, allora in grande crescita economica. «La grande maggioranza dei manifestanti è composta da famiglie, pensionati, lavoratori, gente comune, che scende per le strade a protestare in modo pacifico con le tradizionali caceroladas (percuotendo pentole o altri oggetti). Anche io e la mia famiglia sabato scorso abbiamo partecipato a una cacerolada nel nostro Comune, La Reina, una zona molto tranquilla dell'area metropolitana di Santiago. Una manifestazione pacifica con tante famiglie e persone anziane. Ma ad un certo punto, quando è scattato il coprifuoco, sono arrivati trenta militari che ci hanno ordinato di fermarci e tornare a casa».
E continua: «Parliamoci chiaro, il Cile non è il Venezuela. Il nostro è un Paese ricco, dove tantissima gente è benestante. Il tasso di disoccupazione è al 5-6%. Questa non è una rivolta per il pane, non stiamo lottando contro la fame. Siamo ben lontani dalla Rivoluzione francese. Il problema di fondo è che in Cile tutti i servizi di base, dalla sanità alla scuola, sono privatizzati. La scuola e la sanità pubblica sono allo sfacelo, se si vogliono dei servizi quantomeno di buona qualità bisogna per forza rivolgersi al settore privato e pagare. Fino ad oggi la gente ha sempre pagato. E quando sono aumentati i costi ha continuato a pagare. Fino ad arrivare al momento dell'esasperazione: ciò che chiediamo è uno Stato che garantisca servizi pubblici di qualità, un Paese civile che riduca le diseguaglianze socio-economiche. Noi lottiamo per una maggiore giustizia sociale in Cile».
«Questa lotta non ha a che fare semplicemente con l'aumento del biglietto della metro o del prezzo del carburante. E' una lotta di trent'anni, che riguarda il Cile e tutto il Sud America», dichiara un testimone della "prensa alternativa", i mezzi di comunicazione alternativi, diffusa attraversi i social network. «Cerchiamo di diffondere informazioni su ciò che sta realmente accadendo in Cile attraverso Twitter, Instagram, Facebook. Valparaíso sta vivendo episodi di violenza fuori dal comune da parte dei militari e della polizia». Le radio alternative trasmettono attraverso la Rete video e notizie inquietanti che raccontebbero - se la veridicità fosse confermata - maltrattamenti ed episodi di abuso di potere da parte dell'esercito e dei poliziotti nei confronti dei cittadini che protestano.
Amnesty International ha lanciato un appello affinché, in questa situazione di crisi e di forte scontro sociale, i diritti umani vengano rispettati. Durante le proteste,si legge nel comunciato dell'organizzazione umanitaria, le forze di sicurezza hanno impiegato forza eccessiva e sono stati segnalati arresti arbitrari di manifestanti. «Invece di reprimere le proteste, il Governo cileno dovrebbe trovare soluzioni alle richieste provenienti dalle proteste e indagare su tutte le denunce di violazioni dei diritti umani segnalate nel corso delle manifestazioni», è stata la dichiarazione di Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty International per le Americhe. La ex presidente del Cile e alto commissario dell'Onu per i diritti umani Michelle Bachelet ha lanciato un appello a Pinera: «Esorto il Governo a lavorare con tutti i settori della società verso soluzioni che contribuiscano a calmare la situazione e a cercare di affrontare il reclami della popolazione nell'interesse della nazione. L'uso di una retorica infiammatoria servirà solo ad aggravare ancora di più la situazione».