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venerdì 20 settembre 2024
 
scenari
 

Da Biden alla Merkel, chi ha paura della Cina?

21/06/2021  La nuova presidenza di Joe Biden ha risvegliato l'antica rivalità dell'ex Impero Celeste. Ma nessuno ha voglia di fare di Pechino un nemico, a cominciare dall'Unione europea

Il primo effetto concreto del summit tra Joe Biden e Vladimir Putin è stato, paradossalmente, di rimettere al suo posto la Cina. In senso politico e in senso geografico. Dopo tanto parlare del pericolo russo (da “Putin è un assassino?”, “Sì, sì” in giù), la nuova amministrazione americana ha spostato il tiro più a Est. Alleati, amici e vassalli, Nato compresa, hanno cominciato a dire che il vero pericolo sta in Cina e che, semmai, è l’alleanza tra Mosca e Pechino che dev’essere a ogni costo sventata. Giusto e inevitabile. La narrazione sulla Russia come nuovo impero del male che tutto può e tutto fa ai danni di un Occidente così più potente di lei, era ormai stanca e un po’ ridicola. Però è servita a realizzare la fase uno del piano americano: staccare la Russia dall’Europa. Non tutto ha funzionato, per esempio la Germania di Angela Merkel ha difeso con tenacia la collaborazione energetica con la Mosca attraverso il gasdotto Nord Stream 2. Ma in buona sostanza l’Europa ha recepito il messaggio. Per la fase due, cioè isolare la Cina, occorreva però recuperare la Russia. Così Putin, da quell’assassino che era, nelle parole di Biden è ridiventato “un degno avversario”.  Il Presidente americano, inoltre, si è presentato a Ginevra con un regalo gradito al Cremlino: la dichiarazione che l’Ucraina “non è pronta” a entrare nella Nato.

Il campo di tiro ora è sgombro, nel mirino c’è la Cina. Pronti, mirate, fuoco? Calma. Anche a questi livelli, anzi, soprattutto a questi livelli, tra il dire e il fare sta di mezzo un mare. E può anche darsi che per rimettere al suo posto la Cina sia ormai troppo tardi. L’avvento sulla scena politica di Xi Jinping ha segnato, per la Cina, un radicale cambiamento di paradigma. Per molti anni il colosso asiatico ha viaggiato a fari bassi, cercando di massimizzare i profitti in termini di sviluppo senza farsi troppo notare, evitando il confronto internazionale, giocando al parente povero che vuole solo lottare per una vita migliore. Xi Jinping ha rovesciato il tavolo: la Cina c’è, è importante, vuole pesare e contare nel consesso delle nazioni. Il progetto della Nuova Via della Seta è emblematico, non solo per le sue implicazioni economiche ma perché ipotizza un reticolo di infrastrutture e relazioni politiche che riporta la Cina al centro del mondo. Senza timori e senza falsi pudori.

Negli ultimi decenni la Cina ha piantato profonde radici non solo in Asia, com’era lecito aspettarsi, ma anche in Africa e in Europa.  Nei primi dieci mesi del 2020 il valore dell’interscambio commerciale tra Europa e Cina è stato di 477 miliardi. Pechino è il terzo recettore delle esportazioni tedesche e il secondo esportatore in Germania. È il quarto esportatore in Francia, il terzo in Italia, il terzo in Spagna, e così via. A fare a cazzotti con l’Impero Celeste c’è da farsi male. Lo sa bene l’Australia, Paese solidale con le politiche Usa se mai ce n’è stato uno. Dopo qualche decisione del Governo australiano a lei sfavorevole, e chiaramente “politica” (no al G5 di Huawei, chiusura di alcuni progetti legati alla Nuova Via della Seta), la Cina ha disdetto l’accordo che regolava gli scambi commerciali con l’Australia, di cui è il primo partner commerciale. Risultato: in un giorno il dollaro australiano ha perso l’1%. Ed è solo l’inizio.

Altro esempio, visto che si parla del 2020. Nell’anno orribile del Covid l’economia cinese è cresciuta del 2,3%, tanto quanto quella americana è calata. E quest’anno gli esperti del Fondo Monetario Internazionale prevedono per la Cina una crescita del 7,9%, come nessun altro. Su Pechino, e fin dai tempi di Trump (che faceva il gioco di parole kung flu), grava il sospetto di aver fatto crescere il seme della pandemia in uno dei suoi laboratori, e comunque di non aver gestito con trasparenza e onestà la prima risposta al virus. Negli Usa e altrove sono state avviate inchieste che difficilmente manderanno assolte le autorità cinesi. Ma poi che succederà? La comunità internazionale chiederà i danni o metterà al bando Pechino? Difficile. Non conviene a nessuno, in tempi di profonda crisi economica e di Recovery Plan da realizzare, mettere i bastoni tra le ruote a una locomotiva dell’economia mondiale, al Paese che tra pochi anni potrà vantare un Prodotto interno lordo pari a quello degli Usa.  E poi c’è tutto il resto. Le politiche rispettose dell’ambiente, per incidere, hanno bisogno della Cina. Una seria iniziativa per l’Africa non può che coinvolgere la Cina. E così via.

La Cina ha snobbato il recente summit del G7. Gli ha dedicato una breve occhiata per sbeffeggiarlo come la riunione di un gruppetto di nostalgici che credono ancora di dominare il mondo. Dal punto di vista dei numeri ha qualche ragione: il G7, che un tempo rappresentava il 70% dell’economia mondiale, ora “vale” solo il 40%, e raccoglie appena il 10% della popolazione mondiale. Pechino, però, sa che la propria economia non tollera rallentamenti o, peggio, stagnazioni. Sa, quindi, quale danno potrebbe derivare dal sistematico boicottaggio delle sue iniziative esterne, come in parte sta già avvenendo in Europa e in America.

In conclusione, ci avviamo tutti a un gigantesco esercizio di equilibrio in cui molto dipenderà dai protagonisti. Bisognerà vedere se Biden cercherà di far accettare alla Cina uno standard di regole più adeguate a una corretta concorrenza internazionale o non vorrà piuttosto riportare in vita i fasti del secolo americano, quando gli Usa decidevano e gli altri si adeguavano. Da questo punto di vista quanto è successo negli ultimi mesi può destare preoccupazione: la Ue aveva siglato con la Cina un accordo sugli investimenti che, finalmente, regolava un settore in cui spesso Pechino ha giocato sporco. Agli Usa la cosa non è piaciuta e poco dopo l’accordo è stato sospeso. Se l’idea è questa, prepariamoci all’ottovolante. Non a caso la Cina ha immediatamente varato sanzioni contro la Ue. Anche Xi Jinping, però, deve affrontare una scelta analoga. Può capire che lo status di potenza, che il suo Paese ormai apertamente rivendica, comporta anche delle rinunce, delle responsabilità, e la partecipazione a un “gioco” globale che non può prescindere da regole comuni. Oppure può scegliere la strada dell’isolamento orgoglioso, nella nostalgia di quel Regno di Mezzo che bastava a se stesso. Potrebbe reggere ma condannerebbe la Cina a un ruolo da eterno outsider.

 

 
 
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