Il presidente cinese Xi Jinping.
L’ anno 2023 sarà ricordato come un “annus horribilis” per la Cina e la sua leadership. La fine dell’isolamento di quasi tre anni, a causa della pandemia del Covid, non sta ridando forza all’economia. Le esportazioni, una volta un pilastro del gigante cinese, sono scese del 12,4% in un anno; le importazioni si sono abbassate del 6,8%; i consumi interni stentano a salire tanto che i prezzi al consumo diminuiscono, creando le basi per una deflazione. Intanto gli investimenti diretti stranieri sono scesi in un anno dell’84%.
Le ragioni della crisi non pescano solo nel mercato mondiale, ma anche nel tentativo ideologico del presidente Xi Jinping di mantenere l’egemonia del Partito sull’economia. La nuova legge antispionaggio, che mette sotto controllo ogni comunicazione economica o industriale, non tranquillizza gli investitori. La guerra contro il potere delle compagnie cinesi di internet, le scuole e le industrie private ha ricadute enormi sul mercato del lavoro.
Fino a qualche settimana fa l’Ufficio di statistica nazionale dava al 21% la disoccupazione giovanile, tuttavia alcuni accademici cinesi hanno calcolato che essa arriva quasi al 50%, contando i giovani migranti e quelli che stanno ai margini del mondo del lavoro. Da allora, la Cina ha deciso di non pubblicare più cifre sulla disoccupazione giovanile. Un altro enorme capitolo in rosso è la bolla dell’edilizia, dove diverse grandi compagnie di costruzione stanno a poco a poco fallendo, trascinando con loro il debito statale delle province, che dalle ditte di costruzione ricevevano incentivi e tasse.
Nonostante questo quadro preoccupante, rimane vivo il sogno di Xi Jinping di “ringiovanire la nazione cinese” e fare della Cina il nuovo centro del mondo, scalzando gli Stati uniti d’America e i loro alleati. La partecipazione diretta di Xi Jinping al summit dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) a Johannesburg (dal 22 al 24 agosto) voleva essere un tentativo per radunare sotto una bandiera “multipolare”, anti-occidentale e anti-Usa la maggior parte dei Paesi in via di sviluppo.
Presi di mira sono l’uso internazionale del dollaro Usa come moneta di scambio, le sanzioni internazionali contro Paesi come la Russia e l’Iran, una politica più favorevole ai Paesi poveri da parte del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, a egemonia occidentale.
Per ora si è giunti ad accogliere sei nuovi Paesi – Argentina, Etiopia, Iran, Arabia saudita, Egitto, Emirati arabi uniti – entro il gennaio 2024. Ma le differenze strategiche, economiche e politiche fra loro sono grandi e questi Stati sembrano essere solo uniti dal voler contrastare il predominio dell’Occidente.
In queste stesse settimane Pechino ha espresso la sua contrarietà all’incontro di Camp David fra il presidente statunitense Joe Biden e i leader sudcoreano e giapponese (18 agosto). Questi hanno criticato la Cina per il suo “comportamento aggressivo” nel Mar Cinese meridionale e verso Taiwan.
Per Pechino il Mar Cinese meridionale è parte integrante del suo territorio, anche se la Corte internazionale dell’Aia, rispondendo su richiesta delle Filippine, ha stabilito che Pechino non ha alcun diritto. Questo però non ferma la Cina che continua a costruire basi militari e piste di atterraggio sulle isole Spratlys e Paracelso, a migliaia di chilometri dalle sue coste, e molto più vicine ad altri Paesi che ne rivendicano la sovranità. Fra questi vi sono appunto Filippine, Vietnam, Malaysia, Brunei e Taiwan.
Taiwan, unica reale democrazia nel mondo cinese, è vista da Pechino come il pericolo numero uno e dal 1949 – dalla fuga di Chiang Kai-shek sull’isola – ha promesso di riconquistarla senza escludere l’uso della forza. Nel prossimo gennaio ci saranno le elezioni presidenziali sull’isola e il probabile vincitore sarà William Lai del Partito democratico progressista che, pur aperto al dialogo con Pechino, non vede nel prossimo futuro un assorbimento dell’isola, né uno schema “Un Paese, due sistemi”, già fallito a Hong Kong. Nella speranza di influenzare l’elettorato taiwanese, Pechino penalizza le importazioni taiwanesi (soprattutto di prodotti agricoli e ittici) e spiega le sue forze aeree, marittime e missilistiche vicino all’isola, specie quando i leader di Taiwan vengono ricevuti da personalità politiche estere.
Ma il “comportamento aggressivo” di Pechino sta facendo guadagnare a Taiwan una sempre maggiore stima internazionale – specie da parte dell’Unione europea – anche grazie alla dinamica economia dell’isola e al fatto di essere il massimo produttore mondiale di semiconduttori di ultima generazione.
Non pochi analisti pensano che i fallimenti economici e politici di Xi Jinping potrebbero spingerlo a lanciare una guerra contro Taiwan, anche se da notizie che filtrano all’esterno, sembrerebbe che perfino nell’esercito cinese vi siano resistenze ad azioni belliche.