Una storia d'amore per niente scontata, in cui la musica ha un peso importante.
Una storia d’amore d’altri tempi che ha conquistato il Festival di Cannes, regalando il primo vero colpo di fulmine del Concorso. Cold War racconta di una passione nata attraverso il canto e la musica. Siamo nella Polonia degli anni Cinquanta, schiacciata dall’oppressione e ancora in miseria per la guerra appena conclusa. Il regime controlla i cittadini, la propaganda fa di tutto per mantenere il consenso, anche in una realtà rurale. Zula è giovane, bella e con un passato difficile; Wiktor è un artista (suona il pianoforte e lavora in una scuola), e le insegna anche ad amare. Non si lasceranno mai, si inseguiranno nei decenni senza mai smettere di essere legati l’un l’altro. Gli eventi li separano, il destino li spinge a spostarsi attraverso l’Europa, allontanandoli per poi farli incontrare di nuovo, magari all’ombra di un teatro.
L’identità di un popolo si esprime attraverso i sentimenti di due individui comuni. La vicenda scorre come un fiume in piena, colpisce la platea con la forza di un melodramma di grande rigore. Il regista Pawel Pawlikowski illumina la scena con un bianco e nero acceso, senza artifici, che richiama la purezza del suo film precedente Ida. Era la vicenda di una fanciulla in attesa di diventare suora, che scopriva di essere ebrea. Si parlava di antisemitismo, di religione, ma anche di legami di sangue e di ricerca delle proprie radici: una storia ambiziosa e bellissima, sospesa tra le mura di un convento e il resto del mondo.
Anche qui la macchina da presa abbraccia temi universali, i giochi di sguardi danno vita a splendide geometrie, il cinema viene esaltato al massimo della sua espressività. Ci si perde nei primi piani dell’angelica Zula, che sul palcoscenico regala esibizioni da togliere il fiato. “È così splendida che si è addirittura esibita per Stalin”, dice qualcuno. Sarà vero? Non importa. Lei vorrebbe solo tornare dal suo innamorato, ma la politica e le decisioni dei potenti li dividono. Cold War conquista, emoziona, e con fervore dipinge l’affresco di un Paese umiliato, che cerca di tenere salda la propria dignità attraverso la cultura. La quiete si ritrova all’interno di una chiesa in rovina, distrutta dai bombardamenti, con la volta scoperchiata. I due protagonisti, tenendosi la mano, guardano in alto, verso una speranza che non può morire. E tutto il resto sembra diventare superfluo davanti a queste anime disperate.
Pawlikowski mette in scena un rapporto vibrante, che accompagna lo spettatore lungo quindici anni, dal 1949 al 1964. In mezzo scorrono le città, i confini geografici, e soprattutto le sofferenze di chi non riesce mai a ritrovarsi. L’amore è per sempre, suggerisce il regista, che chiama i due innamorati con i nomi dei suoi genitori, e non certo a caso. La favola si scontra con un destino beffardo, il finale è inaspettato e forte. Una grande emozione da questo film polacco sincero e potente, che non può lasciare indifferenti i giurati.
(pubblicato originariamente il 12/05/2018 in occasione della visione in anteprima del film proiettato a Cannes)