di Lorenzo Rossi
Un paio di pantaloni intrisi di sangue e una confessione estorta durante un interrogatorio brutale: così, con questi discutibili elementi, Iwao Hakamada, ex pugile, fu spedito nel braccio della morte. Era il 1968. Oggi, dopo quasi cinquant'anni passati nell'attesa della forca, il tribunale distrettuale di Shizuoka lo ha dichiarato innocente. A 88 anni, l'uomo condannato a morte più longevo al mondo esce finalmente da questo incubo, in uno dei casi giudiziari più controversi della storia del Giappone.
Hakamada fu arrestato nel 1966, con l'accusa di aver ucciso il suo datore di lavoro, sua moglie e due dei loro figli. Quattro persone trucidate a colpi di coltello, in una casa della prefettura di Shizuoka, data poi alle fiamme. Le prove? Cinque capi d'abbigliamento trovati quattordici mesi dopo il delitto, abbandonati in una vasca di miso, con tracce di sangue che, secondo l'accusa, combaciavano con quelle delle vittime e dello stesso Hakamada.
Fu così che un uomo, che all’inizio aveva confessato sotto minaccia per poi ritrattare in aula, fu condannato a morte. La sua colpa: aver ceduto alla pressione di un interrogatorio violento, in un sistema giudiziario che, già allora, cominciava a mostrare le sue crepe. Un sistema che sembrava più interessato a trovare un colpevole che la verità.
Oggi, a distanza di decenni, la giustizia giapponese ammette di essersi sbagliata. Il tribunale ha stabilito che le macchie di sangue sugli abiti non potevano essere rimaste rossastre dopo un anno immersi nel miso. Una dichiarazione che, se non fosse tragica, avrebbe il sapore di una farsa. «Le macchie di sangue sono state elaborate e nascoste dalle autorità», ha sentenziato il giudice. «Il signor Hakamada non è colpevole».
Con questa frase si chiude una delle più lunghe e vergognose vicende giudiziarie del Sol Levante. Una saga che, dal 1968 a oggi, ha attirato l'attenzione mondiale, mettendo in luce non solo le ombre del sistema penale giapponese, ma anche il perdurare della pena di morte in uno dei pochi Paesi industrializzati a non aver ancora abbandonato questa pratica.
Se c’è una persona che non ha mai smesso di credere nell’innocenza di Hakamada, è sua sorella Hideko. Novantun anni compiuti, ha dedicato la sua vita a combattere per la libertà del fratello. «Abbiamo combattuto a lungo», ha detto, «ma oggi possiamo finalmente vedere la luce in fondo al tunnel». Una luce che, per decenni, sembrava destinata a spegnersi.
Il caso Hakamada è solo uno dei tanti esempi della cosiddetta "giustizia degli ostaggi", come l'ha definita Teppei Kasai, avvocato di Human Rights Watch Asia. Un sistema che consente agli investigatori di abusare della loro autorità, estorcendo confessioni con l’uso della forza. E, nonostante tutto, la pena di morte in Giappone gode di un vasto consenso popolare, unico Paese sviluppato, insieme agli Stati Uniti, a mantenere ancora la forca. Ma forse, con questo caso, qualcosa comincia a muoversi.