Livia Pomodoro (Imagoeconomica)
Livia Pomodoro quel 9 febbraio 1963 aveva 23 anni, una laurea in Giurisprudenza e l’idea di darsi alla carriera diplomatica. Oggi, a 73 anni, è presidente del Tribunale di Milano e accetta di raccontare come il bando di concorso in magistratura, fino a quel momento precluso alle donne, ha deviato per sempre la sua strada in una direzione che – lo si capisce anche dal sorriso che attraversa con frequenza il racconto – ha finito per corrisponderle a pennello.
«Mi ero laureata in quegli anni in Diritto internazionale privato, lavoravo nelle Istituzioni di diritto internazionale, dov’ero assistente. Quando è entrata in vigore la legge, mi si è aperta una nuova opportunità. Allora noi giovani non avevamo un unico obiettivo, cercavamo di inserirci nel mondo del lavoro facendo più progetti per il futuro. Certamente ce n'era uno privilegiato, ma non era l'unico. Io, per esempio, avevo fatto il concorso in magistratura senza molta convinzione: a quell'epoca volevo fare il diplomatico. Ma mi si è aperta un’opportunità in più e ci ho provato».
Visto il percorso successivo, è stato un provarci convinto…
«Fa parte del mio temperamento, quando scelgo un percorso, ne faccio la ragione della mia vita e rendo testimonianza di come si può cercare, nei limiti delle proprie capacità, di dare il meglio».
Che cosa ha comportato entrare con le prime – una quindicina di donne – in una istitizione che si è pensata per secoli al maschile?
«Eravamo una novità assoluta nel panorama istituzionale. Ma erano tempi di grande fermento, anche perché nel frattempo si erano aperti anche i ruoli diplomatici per le donne, che fino a quel momento erano chiusi. Ho cominciato come uditore a Bari e dopo circa un anno sono stata trasferita al Tribunale di Milano. Il Tribunale di Bari non era allora molto avanzato, ma non ricordo grandi difficoltà. Semmai si trattava di fronteggiare assurde richieste che provenivano dal Ministero o da altri organismi istituzionali, molto preoccupati di sapere com’era organizzata la nostra vita, di che cosa pensavamo di poter fare, di quali fossero i ruoli che ci si potevano attribuire con maggiore facilità, ma, indipendentemente da questo fatto un po’ fastidioso e un po’ sciocco, il percorso che ho fatto è stato assolutamente paritario. Devo anche dire che, appena arrivata a Milano, sono entrata subito nell’Associazione nazionale magistrati e diventata giovanissima segretario generale di un gruppo di magistrati molto consistente. Questo a dimostrazione del fatto che, benché qualche pregiudizio ci sia stato - inutile negarlo - le relazioni all’interno dell’ordine giudiziario tra maschi e femmine, per la mia esperienza, non sono state affatto drammatiche».
E l’utenza, come ha preso la novità?
«Può darsi che qualcuno si sia sentito a disagio, io non so se qualcuno abbia pensato di non potersi fidare di me perché ero una donna, non mi è mai capitato neppure di percepirlo, però sicuramente è accaduto ad altre. Forse è stato un caso che non sia accaduto anche a me».
Nel suo percorso c’è stata una intensa esperienza al Tribunale per minorenni di Milano, che ha presieduto a lungo. Per molto tempo quella è stata considerata una destinazione privilegiata per le donne magistrato. Un pregiudizio o qualcosa di diverso?
«Io mi sono sempre occupata di questioni sociali, minori, infanzia, anche a livello dottrinario. Per me è stato l’esito di una propensione personale. Certo, per molto tempo si è anche pensato che fosse uno sbocco naturale per le donne, dovendo occuparsi di famiglia, ma nel mio caso è stata solo la parte, importante, di un percorso più ampio che mi ha portato anche a fare il capo di Gabinetto per quattro ministri. Detto questo, al di là di me, qualche pregiudizio c’è stato e sicuramente c’è ancora. Del resto abbattere i “pre-giudizi” è sempre stato difficile. In ogni professione esiste questo rischio. Una sola volta mi capitò un dirigente di un ufficio giudiziario che mi disse chiaramente che lui preferiva lavorare con gli uomini. Dopo poco se n’è andato e quando è tornato in un altro ruolo c’è stata una ripresa quasi amicale. Ci può essere un’impreparazione che deriva dal pregiudizio ad accettare una donna in un ruolo, questo sì. Ma la vita professionale è piena di pregiudizi non solo di genere».
Lei è stata ed è la prima donna alla presidenza di un grande Tribunale come quello di Milano, molto esposto, anche se portato a esempio di una buona amministrazione. Si rischiano altri pregiudizi? Difficile accettare le carriere delle donne?
«(Ride). La carriera dovrebbe essere - anche se non sempre è così e non per questioni di genere - correlata ai meriti, alle capacità. Dirigere un Tribunale grande, pieno di problemi, in posizione strategica dal punto di vista economico-finanziario e con complicate questioni sociali sul territorio, è una sfida di grandissimo rilievo. Abbiamo appena pubblicato un bilancio di responsabilità sociale e io spero che le cose che si fanno bene siano frutto dell’autorevolezza professionale, indipendentemente dal genere, e che ci venga riconosciuto l’impegno a tendere al bene comune. Ho una grande fortuna: un gruppo di ottimi collaboratori che crede nel progetto come me».
Il Tribunale di Milano è tra i più femminili, anche in posizioni di vertice. Da Presidente, è più facile lavorare con gli uomini o con le donne?
«(Altra risata) E’ facile lavorare con coloro che hanno voglia di lavorare insieme. Le donne forse sono più disponibili a lavorare in gruppo, gli uomini un po’ meno. Ma poi dipende dal progetto, dall’attività che si svolge. Devo dire che non ho mai avuto grandi difficoltà, anche se nella vita mi è capitato di lavorare molto più spesso con gli uomini. Ho colleghe straordinarie con cui lavoro davvero bene. Col passare degli anni, mi sono scoperta una sola virtù - gli altri sono adattamenti in progress che tutti fanno - ed è la capacità di relazione: amo l’umanità e ne vengo riamata. E questo aiuta».
Paola Di Nicola (Alessia Giuliani Cpp)
«In quel momento avrei desiderato avere un completo scuro, con cravatta intonata e sobria. Possibilmente una barba grigia e ben curata a incorniciare un viso serio e impenetrabile . Se fossi stata così, se mi fossi presentata così, certamente non mi sarei sentita fuori contesto e inadeguata rispetto al carcere, rispetto ai poliziotti, rispetto a Gennaro». L’imputato.
Paola Di Nicola ha 46 anni, è giudice al Tribunale penale di Roma e ha scritto queste righe in un libro che si intitola La Giudice, una donna in Magistratura. Non nega, vent’anni dopo la nomina, che quella storia se l’era immaginata diversa. Che mai avrebbe creduto all’inizio che il pregiudizio che per secoli aveva escluso le donne dalla giurisdizione potesse pesare ancora – dopo tanta acqua sotto i ponti - sulla quotidianità del presente di tante donne che oggi indossano la toga nelle aule di giustizia italiane. Quando, dopo vent’anni di lavoro, ha messo insieme i fili di tante sensazioni vissute, delle mezze frasi smozzicate ingoiate facendo finta di niente, ha scritto tutto in un libro, che è una denuncia ma più di tutto una storia, nelle sue ruvidezze solare come chi l’ha scritta. Una storia anche ironica e autoironica, per quanto un po’ dolorosa, di cui nel giorno di questo anniversario abbiamo provato a chiedere conto.
Dottoressa Di Nicola, quante altre volte prima e dopo l’interrogatorio di Gennaro ha desiderato una cravatta, un completo scuro, una barba?
«Moltissime volte. Ogni volta che ho percepito in aula il pregiudizio, nascosto, sotterrato, di un imputato uomo di fronte alla prospettiva di essere giudicato da una donna, in relazione alla materia del processo. Mi è accaduto tutte le volte in cui capivo che, se io fossi apparsa con la giacca, la cravatta e la barba, gli avrei dato la certezza istituzionale di essere davanti a un giudice terzo e imparziale, che io con i miei capelli a mezza lunghezza, con la mia collana non gli davo».
Per molto tempo le donne magistrato hanno dovuto fare riferimento a modelli maschili, è capitato anche a lei?
«Sì. Sono partita anch’io rimuovendo la realtà concreta, il fatto di essere donna con il corpo di una donna, con il bagaglio culturale di una donna. Ho capito che quella differenza esisteva quando mi sono resa conto che il mio primo capo era più preoccupato del fatto che potessi assentarmi per una eventuale maternità, che delle mie capacità professionali. Ma al momento ho rimosso quell’aspetto. La presa di coscienza vera è arrivata, dopo, scrivendo. Lo scrivere, sollecitata dall’editore Ghena, mi costretto a un percorso, che mi ha permesso di scavare, di razionalizzare disagi, percezioni, episodi, che non avevo mai messi uno vicino all’altro».
Non ha avuto paura di esporsi, in un momento in cui la presenza dei magistrati nel dibattito pubblico fa discutere?
«Scrivere una sentenza significa esporsi, è un fatto connaturato alla nostra responsabilità. Mi sono posta il problema certo, ma la storia delle donne è stata silenziata, perché non è stata scritta dal loro punto di vista. Per questo mi sono sentita anche il dovere morale di porre questi problemi, perché non sono miei personali, ma possono ricadere sull’istituzione che rappresento».
Tendiamo a dimenticarlo, ce ne accogiamo il giorno che una donna magistrato esposta, viene criticata e attaccata con argomenti che a un uomo nessuno si sognerebbe di rivolgere...
«Attaccando una donna magistrato al di fuori del profilo professionale, non dicendo che è capace o incapace, ma aggredendola sul piano personale, si perpetua l’atteggiamento di chi in aula vede in me la donna e non il giudice. Questo libro è stato l’occasione di parlare con tantissime colleghe che mi hanno telefonato, mandato lettere, raccontato storie che non sono diverse dalla mia. Io non ho abbassato lo sguardo davanti a Gennaro, ma nessuno me l’ha insegnato. Ognuna di noi gestisce questo aspetto a proprio modo: c’è chi ironizza, c’è chi rimuove, chi ignora, c’è chi si mette una corazza, chi ricorre a propria volta all’arroganza. Ma dopo 47 anni di permanenza delle donne in magistratura, non possiamo permettere che sia affidata a ciascuna la prontezza della reazione giusta al momento giusto. Se una volta non la trovo il mio ruolo istituzionale dove va?».
Il libro La giudice, una donna in magistratura. (Ghena)
Le insegne del diritto sono maschili, il linguaggio anche, il suo libro però è anche pieno di simboli femminili, la collana, i post it colorati, il ricamo sulla pettina della toga. L’imparzialità passa anche per l’armonizzazione di questi apparenti contrasti?
«Bella domanda, è il mio dubbio quotidiano. Direi che l’imparzialità è l’atteggiamento culturale istituzionale che deve presiedere a qualsiasi condotta del giudice, dal momento in cui assume la valutazione di una vicenda processuale sino alla sua conclusione. È il nostro dna, è la ragione stessa della garanzia istituzionale. L’imparzialità è l’essenza del nostro agire ma non può non passare attraverso il senso del nostro essere persone, con una testa e un corpo che vive nel mondo. Diversamente è finzione, astrazione».
E’ questo che voleva dire quando ha scritto che l’imparzialità è una necessità ma la neutralità è un limite?
«Sì, perché il neutro non esiste in natura. L’imparzialità si conquista giorno dopo giorno. Per diventare imparziali bisogna fare uno sforzo complesso: se io non razionalizzo fino a guardarla con occhio esterno la storia da cui provengo, non saprò mai quanto i limiti e la ricchezza di quella storia possono incidere sul mio giudizio».
A proposito di passare attraverso un corpo, anche la maternità e i due figli hanno aggiunto qualcosa alla giudice?
«Mi hanno resa più capace di entrare nel punto di vista delle persone che incontro, mi arricchiscono come persona, arricchiscono i miei modi di appartenere alla società: attraverso di loro capisco come ragiona un bambino, sento il disagio di un adolescente, percepisco le inquitudini di una madre».
Nel libro scrive che è stata avvisata, soprattutto dai suoi modelli maschili, del pericolo di questa "comprensione". C’è il rischio nella sua posizione di giustificare troppe cose?
«E’ un altro dei problemi che si impara a gestire. Entrare nella dimensione umana del giudice a mio avviso è essenziale, perché un atteggiamento burocratico, distaccato ed esclusivamente razionale rispetto a una vicenda processuale, non ti consente di andare a fondo delle cose, che è cosa molto diversa dal giustificarle. Perché in campo penale parliamo di delitti: un delitto è avvenuto, una vittima c’è. E quindi bisogna andare a fondo di tutto, della storia dell’imputato, ma anche della vittima. Perché la cosa peggiore che si possa fare è dare loro l’impressione di non essere ascoltati. Una volta capito si è meglio in grado di valutare e di giudicare con la dovuta attenzione. Se non si va a fondo si rischia di sbagliare»
Come hanno reagito al libro i suoi colleghi maschi?
«Hanno ammesso che non si erano mai accorti di nulla, che non ci avevano mai pensato. Però un una udienza recente, il presidente del collegio di cui facevo parte come giudice a latere insieme con un’altra donna, ha corretto un avvocato che esordiva: "Signor presidente, Signori giudici". "Signore giudici, grazie: le mie colleghe sono donne"».
Inaugurazione dell'anno giudiziario (Ansa).
La storia delle donne in magistratura è storia di una strada a lungo negata. E, forse per questo, in qualche modo di una strada segnata, dal pregiudizio prima, dalla determinazione di smentirlo poi. Perché la legge che ha consentito alle donne, da sempre escluse dalla giurisdizione, di accedere per la prima volta al concorso per la magistratura è arrivata tardi: il 9 febbraio 1963, esattamente cinquant'anni fa. «La donna» si legge all'articolo 1 della legge 66/1963 «può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione dimansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge». Solo le forze armate sono arrivate dopo.
Prima di quel giorno le donne hanno fatto in tempo ad accedere ai pubblici uffici (1919), a diventare medici, avvocati, a votare per il referendum tra Repubblica e Monarchia (1946), a entrare nell’assemblea costituente e poi in Parlamento, persino a vestire, seppure con una certa limitazione nelle funzioni, la divisa della Polizia di Stato (1959). La toga però no. Per quella ci sono volute quelle tre parole nero su bianco «compresa la magistratura». In mezzo secolo le donne, quelle di cui abbiamo imparato a riconoscere i volti per i processi finiti in cronaca e quelle - molte di più - che lavorano nell’ombra tra procure e tribunali, però hanno pareggiato quasi il conto con i colleghi maschi: sono oggi oltre 4.000 e coprono il 46% dell’organico.
Ma è una quasi parità finora numerica, non ancora di peso specifico, perché nelle posizioni direttive e semidirettive le donne sono ancora in netta minoranza. Anche se nei numeri complessivi il sorpasso è vicino. Ai primi concorsi le donne non toccarono il 5% oggi vincono con percentuali nettamente superiori ai maschi, segno che quella funzione – di cui qualcuna è diventata anche simbolo nel mondo per aver fronteggiato con successo e rigore mafiosi tra i più pericolosi - l'hanno voluta con caparbietà e capacità.
Probabile che le ultime arrivate non facciano più caso a una conquista per loro acquisita e dunque lontana, forse neanche sanno che alcune delle colleghe entrate con il primo concorso sono ancora in servizio. Forse non si pongono, le ultime, più il problema di che cosa abbia voluto dire recuperare velocemente (e controcorrente) lo svantaggio iniziale, forse non immaginano neppure che cosa abbia significato farsi largo contro il pregiudizio che ancora negli interventi dell’Assemblea costituente riteneva la donna inadatta a giudicare, un pregiudizio che si esprimeva con parole così: «Nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento».
Sarebbe naturale credere che quel pregiudizio sia stato scalzato dai fatti, dalla constatazione del tutto evidente, anche nella quotidianità della cronaca, che le capacità professionali non hanno genere. Eppure accade ancora di sentire imputati (e condannati) più o meno illustri mettere in discussione una sentenza perché emessa da un collegio di donne. Anche se la cultura di un Paese civile e democratico non lo dovrebbe accettare.